Quel cigno nero sul governo dell’incertezza
10 Luglio 2018
di MASSIMO GIANNINI
Tutti i governi d’Europa se la passano male. In Spagna Mariano Rajoy è tornato a fare il funzionario del catasto, in Germania Angela Merkel è appesa ai cristiano-sociali di Seehofer e ai neo-nazi di Afd, in Gran Bretagna Theresa May si perde Boris Johnson per le strade di Brexit, in Francia Emmanuel Macron è al minimo storico della popolarità. Ma il caos calmo che regna in Italia sulla politica economica è ineguagliabile. E qui ci corre subito un obbligo: massima solidarietà a Giovanni Tria. Uomo solo, e suo malgrado allo sbando.
Il ministro dell’Economia ce la mette tutta per rassicurare famiglie, imprese e mercati che il suo “disegno riformatore” seguirà “un percorso realistico”, “nel rispetto dei saldi di bilancio” e della “necessaria riduzione del debito pubblico”. Ma mentre il nostro eroe solitario coltiva l’orto della ragionevolezza, i suoi compari glielo distruggono con la gioia feroce delle cavallette. A conferma che per questa posticcia maggioranza il vero campo di Agramante non saranno i migranti (sulle cui povere vite sia Salvini sia Di Maio lucrano rendite elettorali paritarie), ma saranno i portafogli (su cui M5S ha da perdere molto più della Lega).
Quella di ieri è la cronaca di un giorno di ordinaria follia. All’assemblea dell’Abi, il presidente Patuelli invoca più Europa, altrimenti l’Italia finisce come l’Argentina dove il tasso di sconto è al 40 per cento. Il governatore di Bankitalia, Visco, avverte che le misure di “sostegno della domanda vanno dosate con cura” perché di fronte a una nuova crisi “saremmo oggi più vulnerabili di quanto lo eravamo dieci anni fa”.
Tria ascolta e responsabilmente conferma: “L’azione di stimolo dell’economia sarà coniugata alla sostenibilità della finanza pubblica”.
Eppure, nelle stesse ore, il collega ministro degli Affari europei rilancia la sua teoria: il famoso “piano B”.
Savona ripete che “potremmo trovarci in una situazione nella quale non saremo noi a decidere, ma saranno altri. Per questo dobbiamo esser pronti a ogni evenienza: l’arrivo del cigno nero, lo shock…”.
A chi dobbiamo credere? A Tria, che nega qualunque ipotesi di Italexit? O a Savona che, pur senza auspicarla, non la esclude? Per quanto preterintenzionali, queste ambiguità riaccendono i dubbi sull’effettiva capacità/volontà del Paese di restare ancorato all’Eurozona.
E tutto questo, per sommo paradosso tafazziano, accade mentre sul Sole 24 Ore persino il ceo di Jp Morgan, Jamie Dimon, avverte che per l’Italia lasciare la moneta unica “sarebbe una catastrofe”, e fior di economisti (da Reichlin a Tabellini) firmano appelli al governo perché rilanci la sua fedeltà all’unione monetaria, “in difesa del risparmio e del lavoro”. Per un euro-delirio che si riaccende, c’è una “crisi di dignità” che si consuma. A caccia di rivincite mediatiche, Di Maio l’ha presentato come la “Waterloo del precariato”: la verità è che sul suo decreto-fantasma precipitano tutte le contraddizioni ideologiche del “governo del cambiamento”. Da una parte lo statalismo dirigista del Movimento (sia pure animato dalle migliori intenzioni verso i giovani condannati ai “lavoretti”). Dall’altro il liberismo nordista della Lega (ansiosa persino di ripristinare i voucher nonostante gli abusi degli ultimi anni). Anche qui, a chi dobbiamo credere? A Di Maio che giura “non ci piegheremo ai ricatti”? O a Salvini che annuncia “il testo sarà migliorato in Parlamento”?
Nell’ultima settimana è ripartita la fiera delle promesse impossibili. Dai tagli selettivi del cuneo fiscale per il made in Italy al reddito di cittadinanza finanziato con i fondi Ue. Dalla scure sulle pensioni d’oro all’offensiva contro le scorte pazze. Non solo armi di distrazione di massa brandite dai pentastellati, per recuperare “l’identità perduta” come esige il capocomico Grillo. Ma anche pallottole d’argento sovranista sparate dai pasdaran salviniani, tra Borghi che vuole rinazionalizzare Mps e Siri che pretende “Btp venduti solo a italiani”. Di nuovo: c’è da mettersi nei panni del povero Tria, in vista dell’autunno caldo che ci aspetta, tra nota di aggiornamento al Def e legge di Stabilità.
In questo Bestiario Italiano, popolato di cigni neri e cavallette, dovrebbe esercitare le sue virtù maieutiche il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ma neanche “l’avvocato del popolo”, in un’intervista alla Stampa, ci aiuta a capire granché. Nascosto dietro la foglia di fico del “contratto”, dice tutto e il contrario di tutto. Sostiene che il nostro sistema socio-economico “ha bisogno di entrambe le riforme, il reddito di cittadinanza e la flat tax” e “di certo vogliamo procedere in entrambe le direzioni”. Non spiega in che modo saranno attuate, in che tempi e con quali risorse. Vi sembra criptico? Il premier risponde che il suo stile “è sensibilmente diverso da quello dei “politici ballerini”, così sagacemente descritti da Milan Kundera nell’Elogio della Lentezza”. Ha citato il romanzo sbagliato: qui siamo a L’insostenibile leggerezza dell’essere.
Fonte: La Repubblica, https://www.repubblica.it/