Riguardare Sironi

Arte Milano
A sessant’anni dalla morte, il Museo del Novecento dedica al pittore una grande mostra. È il racconto di una parabola geniale e inquieta. Senza dimenticare lo sfondo nero del fascismo.
di Claudio Strinati
Sono passati sessant’anni dalla morte del pittore Mario Sironi nel 1961, quindi la bella mostra di Milano, Mario Sironi. Sintesi e grandiosità, a cura di Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo ( in collaborazione con Andrea Sironi-Strausswald e Romana Sironi) divisa tra il Museo del Novecento e la casa Museo Boschi-Di Stefano (fino al 31 marzo 2022), può ben essere vista quale solenne celebrazione. I tempi sono maturi per un vero e appassionato riesame di Sironi come spiega con ampiezza di argomentazioni Elena Pontiggia, che del maestro è la massima studiosa, nel catalogo pubblicato con merito singolare dalla casa editrice Ilisso, promotrice e sostenitrice della mostra. Siamo adesso nella giusta prospettiva per riconsiderare la carriera di uno dei più grandi pittori del ventesimo secolo, pur così condizionato dall’adesione, precoce e coerentemente mantenuta, al fascismo, tanto da lasciare poi un tremendo amaro in bocca proprio in chi da sempre lo stimò e lo sostenne. Questa mostra rilegge la sua parabola con chiarezza filologica e onestà intellettuale. E dobbiamo ringraziare di questo Gianni Rodari perché, quando a Milano nel 1945 Sironi venne catturato da un comando partigiano, fu lui a firmare il salvacondotto che gli salvò la vita. La mostra è una formidabile rassegna di autentici capolavori e nel contempo un severo esame di coscienza su un tempo e su una cultura di cui Sironi dette una sorta di sublime e insieme tragica versione. Rivedendo le opere esposte ci rende ben conto del lavorio svolto dagli storici (con le due curatrici, ricordiamo Fabio Benzi e Maria Fratelli) per riordinare e precisare le esatte committenze, le datazioni certe delle opere, la precisa scansione dei vari periodi attraversati dall’artista, i veri influssi che ne hanno determinato la grandiosa e sintetica formula stilistica divenuta ben presto una cifra di assoluta riconoscibilità. Per molti anni, almeno fino alla Biennale di Venezia del 1924, Sironi fu considerato più come illustratore di giornali e riviste che come pittore puro. Poi i due aspetti furono correttamente visti, e la manifestazione attuale ce lo dimostra in modo ineccepibile, come le due facce di una stessa medaglia. Se ne ricava un giudizio di assoluta continuità del lavoro creativo di Sironi e si individuano i pochi ma decisivi temi portanti su cui torna per tutta la vita. Riesaminata ora in prospettiva, la parabola di Sironi per come la ricaviamo dai contenuti della mostra, sembra affine a quella del viennese Fritz Lang quando il controverso maestro della cinematografia concepì e realizzò Metropolis nel 1926. Erano quasi coetanei. Sironi nato nel 1885, Lang nel 1890. E svilupparono tematiche analoghe che dall’immaginario del sommo pittore italiano transitarono subito verso quelle del supremo regista austriaco. Una sorta di vite parallele scaturenti da una cultura comune permeata di simbolismo e futurismo, là dove il futurismo non è tanto il dinamismo boccioniano della Città che sale quanto la percezione fantascientifica di un cupo futuro gravato di disumanizzazione.
Le Città di Sironi, dipinte a partire dai primi anni Venti, sono luoghi di terrea desolazione e opprimente industrializzazione, già percepita come un fossile archeologico immobile in un nulla demotivato, un buco nero di sconvolgente fascino e bellezza. Lang in Metropolis immagina il mondo degli anni Venti del Duemila, per esattezza il 2026 (ci siamo quasi!) e vede una inquietante archeologia del futuro. Un mondo che, mutatis mutandis, è proprio quello sironiano affine e opposto a quello dechirichiano delle Piazze d’Italia.
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