Anche a costo di forzare canoni e vincoli. Di esporsi al rischio di un trauma, nell’impallidire dei tradizionali “tabù democratici” e nel vuoto che si è aperto con la scomparsa delle culture politiche del Novecento (i temi sui cui ha richiamato l’attenzione Ezio Mauro evocando la “cosa nera” che sta prendendo corpo nel Paese).
Forse mai il Censis aveva tratteggiato un quadro così cupo e l’analisi muove dalla profondità della crisi che abbiamo attraversato, dai suoi traumi e dalla drammatica carenza di “prospettive di crescita, individuali e collettive”. Elementi già al fondo dell'”Italia dei rancori” tratteggiata un anno fa, nonostante fossero avvertibili allora i segni di una ripresa economica: lo sfiorire di quella speranza ha esacerbato pulsioni, solitudini e paure, nell’intrecciarsi di realtà e immaginari.
Il dato europeo 2010-2017 vede i principali aggregati economici ridiventare positivi dopo il 2013, ma così non è per l’Italia (con l’eccezione dell’export). Il Pil è ancora inferiore di 4 punti rispetto al 2008 e il divario regionale è significativo: con alcune realtà del Centro-nord in pieno recupero o poco attardate e altre – soprattutto, ma non solo, nel Sud – lontane dai livelli pre-crisi.
Con significative divaricazioni anche nell’occupazione e nel rapporto fra le generazioni: negli ultimi dieci anni la componente degli occupati fra i 25 e i 34 anni si è ridotta del 27,3% e sono cresciuti invece i giovani a rischio povertà e quelli costretti al part time.
Siamo al quartultimo posto in Europa negli investimenti in formazione e istruzione, lontani dalla media anche per quel che riguarda i giovani laureati. E con un tasso di abbandoni scolastici molto più elevato.
Rispetto al 2010, poi, gli investimenti complessivi sono scesi all’89,4%, i consumi delle famiglie al 97,4%: ma il loro potere d’acquisto è inferiore al 2008 di oltre 6 punti, nell’accentuarsi della forbice sociale (ad esempio fra le famiglie operaie e quelle degli imprenditori). Si considerino poi gli immaginari: il 63% degli italiani pensa che nessuno ne difenda interessi e identità (percentuale ancor più alta fra chi ha bassi livelli di istruzione e di reddito). E solo il 23% crede di aver raggiunto una condizione superiore a quella dei propri genitori.
Si diffonde cioè la sensazione di “una deriva verso il peggio”: per questa via il nostro modo di essere sembra “quietamente collassare sotto i colpi di un’inedita enfatizzazione identitaria”: un “sovranismo psichico”, appunto, che si è installato nelle teste degli italiani e che addebita minacce vere o presunte alla progressiva perdita di sovranità nazionale. Con un crescente “rifiuto dell’altro”: l’ostilità verso gli immigrati raggiunge il 63%, con percentuali più alte fra anziani e disoccupati. E il “noi contro loro” si intreccia talora “con un populistico noi-in basso contro loro-in alto”.
Sullo sfondo, dunque, la crescente sfiducia nel futuro e un diffuso senso d’ingiustizia e impotenza, nella accentuata forbice fra gli sforzi compiuti (dalle imprese, dalle famiglie, dai singoli) e un contesto generale che li penalizza. Sullo sfondo, anche, la fine di un’epoca in cui partiti e organizzazioni “catalizzavano aspettative, sogni, desideri degli italiani e ne ammortizzavano paure e aggressività”. E sullo sfondo, infine, un’Europa che non è avvertita più come un ponte verso il mondo, ma come “faglia incrinata che rischia di spezzarsi”: solo il 43% degli italiani – meno che in Inghilterra o in Grecia – pensa che l’Unione europea abbia giovato al Paese. Opinione in contrasto con i dati reali e temperata solo da un più confortante giudizio dei giovani. Non lascia molto spazio alle speranze, il rapporto del Censis, quasi a rendere ancor più chiara l’urgenza assoluta di invertire la deriva.