Il vecchio messer Nicia è disperato perché non riesce ad avere figli dalla bellissima moglie Lucrezia. Il giovane Callimaco, che ha perso la testa per lei, lo convince con l’aiuto del furbo Ligurio che basta una pozione estratta da una pianta, la mandragola, perché la donna resti incinta. L’effetto però sarà letale per il primo uomo che giacerà con Lucrezia. Serve qualcuno che per una notte prenda il posto del marito… È l’astuta beffa al centro della Mandragola, la commedia di Niccolò Machiavelli messa in scena per la prima volta a Firenze cinquecento anni fa. E che dal 18 gennaio tornerà in scena al Teatro Due di Parma per la regia di Giacomo Giuntini.
Guardare indietro per parlare all’oggi. Il copione è fedelissimo al testo originale, nella versione di Pasquale Stoppelli per l’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli (Salerno Editrice). Si eseguiranno musiche dell’epoca, mentre costumi e scenografia dialogheranno con il presente. Un modo, per il regista, di restituire l’autore nella sua originaria complessità e mostrare quanto sia ancora contemporaneo. Giuntini e Stoppelli, teatro e filologia, si confrontano su «la Lettura».
Perché la rigorosa fedeltà del testo?
GIACOMO GIUNTINI — Oggi le direzioni artistiche dei teatri mostrano una sorta di ansia del contemporaneo, con proposte che hanno un collegamento quasi cronachistico con quello che accade tutti i giorni. Ma, come istituzioni culturali, è importante offrire una visione più ampia. Un’altra tendenza è l’esterofilia. Quelli di Machiavelli però erano anni di rinascita del teatro con i quali un confronto è fondamentale, altrimenti si rischia di perdere la competenza artigianale nel praticare certi testi, la loro lingua. Metterli in scena senza toccare una virgola è un allenamento per attori e pubblico.
PASQUALE STOPPELLI — Condivido questa impostazione, tanto più che nel 2020 celebriamo il cinquecentenario della Mandragola, rappresentata per la prima volta nel carnevale del 1520. Non conosciamo con esattezza la data di composizione, quindi è questa prima rappresentazione che possiamo assumere come riferimento. Una resa fedele è fondamentale perché nella Mandragola la lingua è elemento sostanziale. Se la si aggiornasse, si perderebbero la vivacità e l’espressività tutta fiorentina, ciò che Machiavelli stesso definiva «i sali» della commedia.
GIACOMO GIUNTINI — Lo sforzo è stato anche scongiurare, nella dizione e nei gesti, la retorica: una lingua per noi arcaica spinge istintivamente a un tono aulico e a una postura solenne. E poi rendere comprensibili vocaboli o espressioni che oggi non usiamo più.
Qualche esempio?
GIACOMO GIUNTINI — Badalucco, che sta per «gioco», «divertimento», usato nelPrologo. Oppure, nella Scena III del Primo atto, Ligurio, il grande burattinaio, rassicura Callimaco, puro istinto, che si può fidare di lui perché «il tuo sangue si affà col mio». Una frase del genere oggi potrebbe volere dire: siamo consanguinei. Ma Ligurio non intende quello.
PASQUALE STOPPELLI — «Il tuo sangue si affà col mio» è una battuta strepitosa. Vuol dire: noi siamo fatti della stessa pasta, inganniamo per il piacere di farlo. A Ligurio, che pure è un parassita, vive a spese altrui, la ricompensa in denaro non interessa più di tanto. Il suo piacere diventa quello intellettuale della beffa. La Mandragola è piena di battute straordinarie che rivelano però un’idea non positiva della natura dell’uomo, contigua a quella delle bestie. E questo contrasta con l’idea ottimistica dell’individuo che, nella concezione comune, è propria dell’Umanesimo e del Rinascimento. Un altro personaggio interessante è Timoteo, il religioso che convincerà Lucrezia a ricevere nel suo letto un altro uomo: non più un frate boccacciano interessato al sesso con le devote, ma avido solo di denaro. Su di lui ho una curiosità: con che abito sarà vestito?
GIACOMO GIUNTINI — Tessuto contemporaneo, divisa da domenicano.
PASQUALE STOPPELLI —Bene! Sono certo che Machiavelli pensasse a lui come il priore di Santa Maria Novella. I domenicani di questa chiesa erano antagonisti di quelli di San Marco: i primi mondani, i secondi rigorosi. Non per nulla Savonarola era stato il priore di San Marco.
GIACOMO GIUNTINI — In effetti la geografia scenica nel Prologo lascia intuire che la Chiesa fosse Santa Maria Novella.
PASQUALE STOPPELLI — Con la Mandragola la realtà viene portata sulla scena. Per la prima volta l’ambientazione non è generica: davanti allo spettatore c’è Firenze con le sue piazze e strade, ci sono i modi di dire fiorentini. Gli schemi delle commedie di Plauto e Terenzio sono qui riempiti di contenuti reali. Anche nei nomi si saldano antico e moderno: Callimaco, nome grecizzante che significa «guerriero dalle belle battaglie», ha il cognome Guadagni, di una famiglia fiorentina.
Quali allora le scelte, nello spettacolo di Parma, per la scenografia?
GIACOMO GIUNTINI — Saremo nello Spazio Bignardi del Teatro Due: non su un palco, ma in una specie di enorme stanzone. Una scelta che può evocare i saloni del Cinquecento dove avvenivano le rappresentazioni. Il pubblico sarà su una gradinata frontale. La geografia del Prologo sarà rispettata, ma non si riconoscerà Firenze. I riferimenti a luoghi specifici resteranno nelle battute. Si vedrà una città con elementi rinascimentali che dialogano con materiali contemporanei: timpani e capitelli, ma anche quinte specchianti che non sono certo d’epoca. La filologia è fondamentale quando spalanca porte interpretative nuove. Ma il teatro filologico in senso stretto rischia di essere museificante, di non far deflagrare l’opera. Oggi non c’è il pubblico dell’epoca. A volte è necessario tradire per rispettare.
PASQUALE STOPPELLI — Il teatro può tradire, purché lo spettacolo sia coerente.
Con la musica la scelta torna conservativa…
GIACOMO GIUNTINI — Un’ensemble eseguirà le canzoni originali tra gli atti del compositore rinascimentale Philippe Verdelot. Un male del teatro è che spesso, quando va in scena la drammaturgia classica, gli inserti musicali vengono tagliati, anche se facevano parte dell’opera.
PASQUALE STOPPELLI — C’era anche la pittura ad arricchire lo spettacolo. Sappiamo che le scene delle successive rappresentazioni fiorentine della Mandragola furono dipinte da pittori come Andrea del Sarto e Bastiano da Sangallo.
GIACOMO GIUNTINI — Oggi ci si abitua a monologhi in jeans e maglietta. Anziché ridurre, la prassi scenica dovrebbe valorizzare la macchina teatrale in tutte le sue potenzialità. Altrimenti, a forza di sottrarre, si dirà che non servono i testi, gli attori… ma allora non serve il teatro!
Perché Machiavelli oggi?
GIACOMO GIUNTINI — In questa fase ha preso piede un certo tipo di antipolitica, che sta virando nell’affiorare potente dei nazionalismi. I valori di repubblicanesimo patriottico di Machiavelli possono farci da guida.
PASQUALE STOPPELLI — Ci è stato trasmesso come figura cinica, spregiudicata. Ma è falso. Machiavelli è un modello positivo di attenzione alla politica: per lui il bene comune viene sempre prima dell’interesse privato. La frase «il fine giustifica i mezzi» non l’ha mai scritta.
Anche l’aggettivo «machiavellico» evoca spregiudicatezza. È un equivoco?
PASQUALE STOPPELLI — L’accezione negativa nasce in epoca controriformistica, quando Machiavelli è considerato pressappoco l’incarnazione del male assoluto. Un giudizio che è stato fondato soprattutto sul Principe, che però è un’opera occasionale, per quanto letterariamente sia un capolavoro. Il pensiero politico di Machiavelli si deve cercare piuttosto nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, un’opera di concezione repubblicana. Il Principe, scritto nel 1513, nasce in un momento particolarissimo, quando i Medici sono a Firenze e a Roma c’è un Papa mediceo: condizioni che fanno intravedere la possibilità di uno Stato nazionale, come era avvenuto qualche tempo prima con Cesare Borgia e Alessandro VI, un caso centrale nel trattato.
In che modo la «Mandragola», una commedia, si intreccia con la teoria politica di Machiavelli?
PASQUALE STOPPELLI — Parlare della Mandragola come opera politica in senso stretto è una forzatura. Il suo interesse è antropologico. È in questa chiave che riusciamo a spiegarci come mai la più bella commedia italiana di tutti tempi sia uscita dalla penna dello stesso autore che ha fondato la politica moderna. Sono due ambiti che non si incontreranno in nessun altro autore in maniera così alta. Al centro c’è la natura dell’uomo, che può essere indagata sia al livello della politica sia a quello dei rapporti quotidiani. Anche i personaggi della Mandragola simulano e dissimulano come avviene nell’agire politico, e la realtà è mossa dagli stessi due principi: l’utile e il piacere. Nel privato tutto ciò fa ridere, in politica la ricerca a tutti i costi del proprio interesse può dare e spesso dà luogo a esiti tragici.
GIACOMO GIUNTINI — La complessità di Machiavelli non si esaurisce in uno spettacolo. Per questo sono in programma incontri d’approfondimento. Detto ciò, attraverso i caratteri della commedia si vede la società. Dove, senza la cornice politica di uomini eccellenti a far da principio ordinatore, iniziano i problemi.
È così anche oggi?
PASQUALE STOPPELLI — La natura umana non cambia. Ma la politica, come anche oggi accade, non dovrebbe mai favorire l’interesse personale su quello collettivo.
GIACOMO GIUNTINI — Sono d’accordo. Machiavelli però cerca fino all’ultimo di «correre», di rientrare nella politica, di essere attivo per il bene comune. Anche noi dobbiamo comunque correre.
Callimaco, Ligurio, Nicia, dunque, esistono ancora…
GIACOMO GIUNTINI — Quanti ne abbiamo visti nei film di Monicelli o Risi?
PASQUALE STOPPELLI — Pensiamo infatti alla stagione cinematografica della commedia all’italiana.
Oggi al cinema domina Checco Zalone. Rappresenta gli stessi tipi umani?
PASQUALE STOPPELLI — Non ho visto i suoi film, ma se hanno tanto successo qualcosa di interessante sicuramente c’è.
GIACOMO GIUNTINI — Neppure io li ho visti, probabilmente hanno intercettato certe esigenze della società.
E un Machiavelli nel presente c’è?
PASQUALE STOPPELLI — Se lo riconosciamo per ciò che davvero è stato, per l’amore della patria che lo ha caratterizzato, non ne vedo molti, non solo in Italia.
GIACOMO GIUNTINI — Nuovi Machiavelli non ne vedo. Ci siamo specializzati, le figure a tutto tondo, gli uomini-mondo, non ci sono più.