Quando cambia il nostro modo di pensare e vivere, cominciamo a sentire il bisogno di profeti, meglio se silenti. Nella recente storia della cultura popolare, in tre hanno mostrato questa particolare capacità, resistendo nel tempo: non quelli con lingue e mani più veloci, ma con le antenne più lunghe. Sono stati (almeno i primi due) icone globali della musica live (in grandi assembramenti) e insieme compositori e interpreti di musica nuda e assoluta, da ascoltare in cuffia.
In principio fu Bob Dylan, il Faust della Frontiera americana. Nel 1970, il suo Self portrait (di cui dipinse anche la copertina) fece esclamare su «Rolling Stone» al più celebre e bravo critico musicale del secolo scorso, Greil Marcus, una frase che ebbe più fortuna dell’opera che recensiva: «che cos’è questa merda?». Si riferiva peraltro al brano d’apertura, All the tired horses, da Marcus considerato il migliore dell’album.
A decretare tanto stupore era un long play che, noncurante delle più elementari regole del marketing musicale, srotolava musica strumentale interrotta da un voce esasperata e nasale più del solito, coretti e ritmi monotoni e lo-fi. Dylan era all’apice del successo, anche commerciale. Ci mostrò invece la coerenza del profeta (e del poeta): non intendeva cioè lanciare alcun messaggio rivoluzionario contro il sistema dell’entertainment (come invece si disse a lungo), più semplicemente aveva cantato l’unica cosa che sentiva di poter fare in quel momento, connettendosi, come fanno i poeti, con ciò che sarebbe stato di lì a poco. Aveva cioè anticipato la fine del sentimento della frontiera americana (i cavalli stanchi) e l’inizio di nuove, sanguinose, frontiere da conquistare. Musicalmente, aveva intercettato il sentimento di nostalgia della musica leggera, guardando al passato (il folk, nel caso degli americani, il melodramma e la canzone napoletana nel nostro) per parlare al presente. Negli anni lo hanno seguito tutti, da Mark Knopfler a Bruce Springsteen (il suo Western stars è ora su Netflix), da Bill Frisell a John Zorn.
Self portrait era una merda, effettivamente, ma una merda d’artista. Un album profetico come, sette anni prima, la ballata sul nuovo Diluvio Universale A hard rain’s a-gonna fall (cantata da Patti Smith alla consegna in contumacia del suo Nobel), che anticipava (non solo con il testo, ma con il suono travolgente) l’apice della Guerra Fredda. E Dylan ha ancora una volta condensato lo spirito dei tempi in un nuovo paragrafo del suo (e nostro) sulfureo poema epico. Murder most foul, registrata tempo fa (non sapremo mai davvero quando), ma uscita nel 2020, è un testamento al contrario, scritto per raccontare, non con solo le parole ma con la potenza della sua voce, la perdita dell’innocenza, l’atomica americana che è stata l’assassinio di Kennedy.
Protagonisti della canzone, la più lunga – 17 minuti per 164 versi – mai cantata da Dylan, sono proprio il 1963, l’anno di Hard Rain’s e la cultura popolare americana del Dopoguerra. A rendere immortale quel periodo c’è ora il portfolio fotografico di Daniel Kramer Bringing It All Back Home (Taschen). “Suona Stella by Starlight per Lady Macbeth”, canta Dylan, evocando un nuovo destino nefasto (Stella by Starlight è lo standard jazz che rappresenta la rinascita dopo la Guerra, Lady Macbeth la grande corruttrice). La stella che guida Dylan è la medesima del secondo, diversissimo, profeta della musica popolare. Oggi, fa una certa impressione la visione-ascolto (consigliata) del testamento profetico di David Bowie; Black Star è, per molte ragioni, il video ufficiale di questa pandemia. In Lazarus, il video che anticipava l’album, Bowie si sacrifica idealmente (morirà a giorni), evocando la fine del mondo e la conseguente rinascita. La potenza estetica, sonora (avangard-jazz minimalista) e tematica della canzone raccontano oggi l’angoscia di fronte alla fine di qualcosa e l’ansia per ciò che verrà.
Non a caso il più bel volume fotografico dedicato al Duca Bianco, uscito in Europa a pochi giorni dal lockdown, prende come titolo The Rise of David Bowie, 1972–1973 (Taschen), ossia l’ascesa dell’icona che ha reso il rock un fenomeno di costume. L’autore, il suo fotografo personale Mick Rock (non è un nome d’arte), racconta l’icona per immagini (e come, altrimenti?), con una Via Crucis che mostra nascita, opera e dannazione dell’alter ego di Bowie, l’alieno pansessuale Ziggy Stardust, che cala sulla terra per avvertire gli uomini che il mondo (quello che si conosce) sta finendo.
Infine, abbiamo bisogno della parola oltre ogni credo di Leonard Cohen, il più colto e raccolto dei tre. Tanto che la sua Hallelujah è stato l’inno spontaneo della quarantena globale, dal Canada a Singapore, all’Italia (ne è stata fatta anche una versione da balcone in sardo). La quale, fatta eccezione per (la sua) Dance me to the end of world, è la più universale, commovente e trascendente delle canzoni, un salmo laico che affonda le radici nella Bibbia. Da ogni singola nota della sua opera, Cohen benevolmente suggerisce: «il silenzio è più vicino alla pace delle poesie».
Murder most foul
Bob Dylan
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The rise of David Bowie, 1972 -1973
Mick Rock
Taschen, Colonia, pagg. 300, € 30
Riccardo Piaggio