la nuova realizzazione dell’archistar si svela a los angeles
ANDREA PLEBE
Il trucco glielo insegnò Roberto Rossellini, il cui ultimo film fu un documentario dedicato al Centre Georges Pompidou di Parigi, il Beaubourg, il rivoluzionario museo che lanciò la carriera dei «ragazzacci» Renzo Piano e Richard Rogers, anno 1977. Rossellini morì un mese dopo la fine delle riprese e fu il figlio Renzo a realizzare il montaggio a Los Angeles.
«Vedendomi un po’ ansioso sull’esito finale – ricorda Renzo Piano – mi disse: “Non devi guardare l’edificio, ma il suo riflesso negli occhi della gente”». Lezione da allora applicata dall’architetto e senatore a vita e replicata a Los Angeles, dove questa storia ritorna, all’inaugurazione del nuovo Academy Museum of Motion Pictures: «Mi sono un po’ nascosto dietro ai pilastri, e all’ingresso della grande sala da mille posti, per vedere l’effetto che fa, come si dice. Io spero, credo, che questo luogo sarà amato dagli abitanti di Los Angeles, dai visitatori».
Architetto, che cosa rappresenta per lei questa nuova opera negli Usa, dove già ha realizzato tanti progetti importanti e altri sono in corso?
«La vera scommessa di una vita, della mia vita, è fare luoghi per la gente, costruire un senso di convivialità. E se c’è un luogo per questo, è proprio il cinema, una necessità che la pandemia ha aumentato. Può essere bello vedere un film a casa, magari su uno schermo grande per chi ce l’ha, ma manca la gioia di condividere con gli altri questa esperienza, questo cerimoniale. È un gesto civico, che ti avvicina agli altri. Come un disco ascoltato a casa in cuffia può essere perfetto, ma un concerto in una bella sala è un’altra cosa. Accade per il cinema, la musica, ma anche nelle biblioteche. Quella del Beaubourg e quella che abbiamo realizzato ad Atene sono frequentatissime perché sono anche un luogo di ritrovo e studio dei ragazzi, non solo di consultazione».
Quali spazi ha pensato a questo scopo nel progetto di Los Angeles?
«C’è una grande sala da mille posti, che in futuro potrà ospitare la cerimonia degli Oscar, più grande di quello che serve in quella circostanza. Ma le poltrone della sala possono essere ridotte, come è accaduto in questi giorni, per ospitare un’orchestra di 60 elementi per le prove del “Mago di Oz”. Il Museo ha 16 proiettori per seguire l’evoluzione tecnologica del cinema, dal muto al 3D, celebra il rito di vedere il grande cinema insieme».
Nel museo si possono trovare dalle scarpette indossate da Judy Garland nel «Mago di Oz» ai robot di «Guerre Stellari» al modello meccanico dello «Squalo».
«Un museo può essere anche criticato, a me è appunto accaduto di farlo con il Beaubourg, con cui volevamo rendere la cultura accessibile, ma non bisogna nemmeno esagerare. Qui gli oggetti vengono portati in una dimensione fuori dal tempo, che ne costruisce la durata. Il cinema è un’arte nuova ma già antica, cominciata con quei 58 secondi girati dai fratelli Lumière. È un’arte che ha già la sua storia, con cui mi sono confrontato, realizzando a Parigi la sede della Fondazione Pathé, e ora a Lione il progetto del Museo dei Fratelli Lumière. È un’arte antica ma proiettata nel futuro con la tecnologia».
Una doppia dimensione, insomma.
«Sì, a Los Angeles è nato questo improbabile flirt fra l’edificio del Museo, che ospitava un tempo il grande magazzino May Co., realizzato nel 1939, due anni dopo la mia nascita e considerato un edificio storico, nel cuore della città all’angolo fra Wilshire e Fairfax, e la Sfera sospesa del teatro. È una sorta di navicella spaziale, un vascello volante che sta per toccare terra ma che non lo fa, sostenuta da otto assorbitori di energia in grado mantenere la struttura ferma anche con una scossa di terremoto».
A Los Angeles hanno ribattezzato la struttura «Death Star», riferendosi alla stazione spaziale di Star Wars, la Morte Nera, ma a lei questo nomignolo non piace.
«Sì, Tom Hanks mi ha detto: “Ma che ti importa, è un bel film” e ha suggerito la “Lanterna Magica”, che non è male. Per me è più adatto “Bolla di sapone”, perché il cinema è così, come una bolla che ti porta via, lontano, con l’immaginazione. E poi quella zona di Los Angeles un tempo era una pista di atterraggio di dirigibili. Se si vuole trovare un altro riferimento, direi che è più uno Zeppelin».
Qual è il suo rapporto con il cinema? Quando era bambino ci andava, che cosa vedeva?
«Da bambino di 10-12 anni, diciamo, avevo due interessi: il mare e il cinema. Il mare alimenta l’ansia di scoperta, ti domandi cosa ci sarà oltre quella distesa infinita che fa anche un po’ paura, come canta Paolo Conte. L’altra passione era il cinema: ci passavo la giornata, magari vedendo un film da metà e poi rivedendolo di nuovo dall’inizio. Vedevo soprattutto film western, cavalli e polvere».
Che rapporto vede tra architettura e cinema? Essere architetto o cineasta, dove è la differenza?
«Sono due mestieri molto diversi, ovviamente, ma che presentano anche delle somiglianze. In entrambi i casi, il risultato è frutto di un lavoro di équipe, di tante persone che lavorano e del ping pong creativo che nasce fra di loro. Per vedere il risultato spesso ci vogliono anni. Sono due attività in cui l’arte e la scienza si sposano, non è un caso che l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences le contenga entrambe nel nome. Basti pensare a quanto significa la tecnologia nel cinema. E poi anche se sai cosa hai fatto, e vale per un edificio come per un film, il risultato lo vedi solo all’ultimo, nello sguardo dei visitatori o in sala».
Quali altre similitudini vede?
«È una questione di sequenze, in entrambi i casi. Rapidità e lentezza, silenzio e azione, luce e ombra. Mi è capitato di parlarne con Steven Spielberg: nell’architettura la sequenza la crei tu spostandoti nello spazio, da un ambiente all’altro, il cinema invece è movimento, movie, sei tu che stai fermo».
Prima ha citato Rossellini, ma fra le persone che ha conosciuto e di cui è stato amico ci sono stati anche Michelangelo Antonioni ed Ermanno Olmi, giusto per ricordare due nomi.
«Devo confessare che io provo un po’ di gelosia, ma buona, nei confronti dei poeti, degli scrittori e dei cineasti, che trattano materie piene di leggerezza, mentre un architetto deve fare una grande fatica per fare volare una trave. Il cinema ha questa capacità, è un’arte straordinaria che ti può commuovere fino alle lacrime. E poi c’è tutto: la fotografia, la narrazione, il dialogo, la musica, l’azione. Come puoi non essere geloso?».