Lo scorso 25 aprile alla Columbia University di New York si sono tenute sei cerimonie di laurea separate, ognuna delle quali dedicata all’etnia dei relativi partecipanti: una per gli afro-americani, una per i latini, un’altra per i nativi, un’altra ancora per gli asiatici, una per gli studenti a basso reddito e dulcis in fundo una per gli appartenenti alla categoria LGBTQ+. Sembrerà paradossale, ma questo accade ormai regolarmente nelle scuole e nelle università americane, per volontà delle minoranze stesse. Questo fenomeno è stato definito neo-segregazionismo, e trae la sua origine da un’ideologia ben precisa: il paradigma del razzismo sistemico, teoria anti-razzista promulgata praticamente ovunque negli ultimi due anni dall’universo Black Lives Matter, movimento che dopo aver ottenuto l’appoggio sia morale che finanziario del grande pubblico occidentale e delle grandi società quotate in borsa, come tutti sappiamo ha spaccato gli Stati Uniti in due.
È arrivato il momento di chiedersi da dove arrivi e dove voglia arrivare questa ideologia che ormai conta svariate milizie “black” paramilitari sparse per la federazione americana oltre a numerosi programmi di “sensibilizzazione” nelle scuole elementari. Per cercare di capirlo occorre riavvolgere il nastro sino alla radice della questione, e in questo articolo intendiamo provarci in occasione della pubblicazione del manifesto del Progetto 1776, il volume Red White and Black (edito da Permuted Press e disponibile in lingua italiana dal 28 luglio), una raccolta di saggi scritti da un’intelligenzia afro-americana alternativa alla filosofia auto-segregazionista di Black Lives Matter e che intende restituire una dignità alle comunità afro-americane e del mondo intero, e potenzialmente qualsiasi altra minoranza caduta nella trappola della cultura vittimista odierna. Ma andiamo con ordine, e riavvolgiamo la pellicola. Non occorre tornare troppo indietro nel tempo.
Nikole Hannah Jones nel dicembre del 2019 lancia insieme al New York Times e altri redattori il progetto di revisionismo storico Project 1619, nel quale è sostenuto che la nascita degli Stati Uniti d’America non debba esser ricondotta al 1776, con la Dichiarazione d’Indipendenza, bensì al 1619, data nella quale i primi schiavi di origine africana toccarono il suolo della terra promessa, dando inizio quindi alla vera storia americana, che si fonderebbe su un razzismo sistemico, vera causa storica delle diseguaglianze economiche tra bianchi e neri nel continente americano. È a questo punto che tra le prestigiose e fragilissime cattedre universitarie, dalle colonne di Forbes sino a riviste di marxiste come Jacobin e Dissent, cominciano a fioccare interessanti voci alernative a quella cultura dominante che nel 2020 incendia le città americane e decapita la storia in nome di una legge retroattiva che non fa sconti nemmeno alla stessa Costituzione del 1789. Nasce quindi sotto la coordinazione di Robert Woodson Sr. – attivista afroamericano sin dagli anni Sessanta, giornalista di Wall Street Journal, Washington Post, Forbes e opinionista per CNN e altri importanti televisioni – Project 1776, manifesto antirazzista, ma anti revisionista, che rimette ordine tra gli anni più bui della storia americana, andando ad individuare le vere cause delle diseguaglianze economiche dell’oggi e smontando i diversivi ideologici che distolgono l’attenzione dalle reali contraddizioni interne all’Impero Americano e che rischiano di minarne il soft power mediante il quale è riuscito ad essere modello di emulazione per il resto del mondo. Project 1619 fa nascere un progetto di revisionismo storico e politico-monetario, basato su un assistenzialismo finalizzato a retribuire monetariamente gli afro-americani di oggi per le ingiustizie subite dalle scorse generazioni durante il periodo della schiavitù. Tale progetto ha avuto immediatamente una capillare diffusione, grazie all’aiuto da parte del Premio Pulitzer, nelle scuole sia inferiori che superiori e nelle università, alterando dunque i programmi scolastici e accademici di storia tradizionali. Woodson e colleghi restituiscono una visione della storia pragmatica alle esigenze del presente, senza negare le sofferenze – sin dal 1661, anno di legalizzazione della schiavitù, sino alla sua formale abolizione nel 1865 – vissute da intere generazioni di schiavi provenienti dal Continente Nero. Proprio nella raccolta di saggi Red Black and White (Project 1776 manifesto) a cura dello stesso R.L. Woodson Sr., viene posto l’accento su quei tratti di storia dimenticata delle comunità afro-americane, storie imprenditoriali di successo e di resistenza culturale e fisica a climi estremi di ostilità sociale. Esempi quali il distretto commerciale di Durham nel North Carolina, noto nei primissimi anni del Novecento, come la “Black Wall Street”; l’enclave petrolifera di Greenwood, sezione Tulsa, Oklahoma, dove sempre in quegli anni vengono scoperti numerosi giacimenti di oro nero e dove nonostante fosse interdetto agli afro-americani di intraprendere attività imprenditoriali e tanto più accedere ai negozi dei bianchi, numerosi ex-schiavi del posto decidono tuttavia di tentare l’impresa. Nel 1921 Greenwood è uno dei distretti più importanti del Sud-est. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi racchiusi dal volume il quale intende evidenziare l’imprecisione sia formale che sostanziale dell’aforisma divenuto celebre come slogan anti-razziale:
“Our democracy’s founding ideals were false when they were written. Black Americans have fought to make them true.”
Nikole Hannah Jones, Project 1619
Come rimarca Yaya Fanusie – Adjunct Senior Fellow presso il Center for a New American Security (CNAS) – nel volume, gli ideali non possono essere falsi. Essi sono soltanto ideali, riassumendo il concetto chiave del movimento, è sbagliato da un punto di vista strategico al soft power statunitense, condannare secondo una logica penale retroattiva e in malam partem, quella costituzione che è stata ed è tutt’ora modello quasi-universale di democrazia, senza scendere nella bieca retorica, perché d’innegabile impatto rivoluzionario nella storia del genere umano. Ancora oggi tale idea di democrazia, risulta uno degli strumenti più influenti di cui Five Eyes si serve per aprire artificialmente fronti interni alle nazioni regolate da regimi non allineati alle liberal-democrazie occidentali. È proprio su questo punto che si sviluppa la tesi anti-nichilista che tende ad esaltare, in un’ottica tutta americana di libertà imprenditoriale, i successi della storia, anziché rimuginare mediante una storiografia tossica, sul trauma della schiavitù, fonte dell’attuale nevrosi sociale, da curare il prima possibile con una terapia basata sull’autostima storica dell’etnia afro-americana. È proprio l’anti-razzismo mainstream, paradossalmente, a risultare fonte di esaltazione razziale, servendosi di ideali inversamente razzisti, quali l’estetica della “Blackness” e dell’ “Urban Black” riconducibile al moto rivoluzionario delle Black Panthers algerine.
Negli anni d’oro dell’Hip Hop, ebbero un eco importante tra le comunità afro-americane più povere di quel Sud ex-schiavista negli Usa e quello che viviamo oggi ne è l’eredità. Le catene spezzate dalle conquiste afro-americane, pagate con il sangue da Martin Luther King nel ‘68 e tanti altri suoi connazionali nella storia, rischiano di essere offuscate da un’estetica che ruoterebbe attorno al concetto di “Black is King”, come il titolo dell’ultima opera musical di Beyonce, pronta a sbarcare molto presto su Disney Plus. La visione pessimista del Progetto 1619 dunque non offre possibilità di redenzione secondo John Sibley Butler, direttore del Jon Brumley Venture Labs presso la prestigiosa Texas University di Austin. L’accumulazione seriale tipicamente mormonica di informazioni, prima nelle grotte di Salt Lake City (dove vi sono raccolti documenti su più di 18 miliardi di persone comuni e alla quale Danilo Kiš si ispirò per scrivere l’Enciclopedia dei Morti) poi nei database di Echelon e dei cabinets noir moderni, affondano le radici in un’etica protestante del capitalismo di weberiana memoria assai distorta. La dottrina calvinista della predestinazione (ossia dell’impossibilità della crocifissione di cancellare dall’uomo il peccato originale) anziché forgiare il beruf – e quindi l’esigenza di una realizzazione nel lavoro, nella professione – genera un suo dopplegänger improntato alla rinuncia, all’infantilizzazione post-fallimentare e post-schiavista di una categoria sociale identificata dal colore della pelle, dalle sue sconfitte, assistita da aiuti finanziari da parte dello stato, i quali sono sia la causa che la conseguenza dei suoi presunti fallimenti e di quell’esigenza di approvazione nei confronti dei bianchi. La strumentalizzazione dell’ideologia nichilista antirazzista sarebbe dunque finalizzata a distogliere l’attenzione dalle reali diseguaglianze economiche che attraversano gli Stati Uniti, dove non potrà mai essere sanata la piaga del razzismo, certamente esistente, se non risolvendo i problemi di natura economica, unica soluzione possibile per tendere all’uguaglianza. Valore antichissimo derivato, come tutte le leggi del diritto moderno e contemporaneo, dai testi sacri delle tre religioni monoteiste più importanti: Ebraismo, Cristianesimo e Islam.
Proprio riguardo all’Islam e al Cristianesimo, due personaggi di fondamentale importanza sono stati El Hajj Malik El Shabazz, noto alla storia come Malcolm X, il padre fondatore del movimento Panafricanista – nemesi perfetta di Martin Luther King – e Frederic Douglass, per certi versi identificabile quale suo gemello politico, ma appunto di matrice Cristiana. Secondo l’interpretazione di Yaya J. Fanusie entrambi sono accostabili l’uno all’altro per le loro battaglie di emancipazione ed sviluppo di un futuro per la comunità afro-americana nel nome dell’uguaglianza dell’uomo di fronte a Dio, il che per altro in questo preciso momento storico si sposa con l’essenza dell’Enciclica Fratelli Tutti. Malcolm X, infatti, non parlò mai di “Black-Muslims”, termine il quale entrava in contraddizione con l’universalità e l’uguaglianza di tutti i musulmani, sia bianchi che neri di fronte ad Allah. Analogamente Frederic Douglass non scrisse mai di cristiani neri, ma semmai afro-americani come legame come l’antica patria originaria, comunque importante quale radice di provenienza comune, da non utilizzare quale riferimento al passato di sofferenza e ingiustizie, bensì una chiave di lettura per un futuro e di un presente basato sui valori di intraprendenza, libertà e uguaglianza. La lezione universale che il Progetto 1776 vuole proporre si riassume nel concetto che il paradigma del fallimento racchiuso nel Project 1619 non dovrebbe essere esaltato e assunto come verità assoluta, tanto meno insegnato nelle scuole, in quanto esattamente all’opposto dei valori della Costituzione americana, la quale è stata uno dei più importanti punti di forza dell’innegabile successo di Washington nella storia. BLM, allargatosi alle comunità LGBTQ+, pare aver complicato un quadro già di per sé delicato, invece che curarlo, andando addirittura a modificare i programmi scolastici nelle scuole e università americane per insegnare ai bambini ciò che molti adulti non approvano. Sono troppi gli afro-americani che, dopo aver lottato secoli per l’emancipazione, si ritrovano vittime di un eccesso colposo di legittima difesa ideologica, la quale comincia a dimostrarsi tutt’altro che funzionale alle esigenze delle comunità afro-americane meno abbienti. La lettura del passato, con gli occhi del presente distoglie l’attenzione dalle concrete diseguaglianze, quelle economiche, le uniche, purtroppo, a non fare distinzione di razza.