Sono giorni in cui l’attenzione internazionale è concentrata sui vertici europei nei quali si stanno confrontando i maggiori leader globali. Per comprendere il corso dei futuri equilibri internazionali e il ruolo dell’Italia, soprattutto, nell’aera mediterranea in cui dovrà giocare in maniera autonoma la propria partita cercando di venire a patti con la Turchia e puntando sui propri asset in ambito energetico e finanziario, abbiamo intervistato il Direttore di Limes Lucio Caracciolo.
Professore, qual è il principale messaggio che giunge dal G7 e dal Summit NATO di Bruxelles?
Il messaggio che gli americani hanno veicolato ai loro associati europei è che l’America vuole tornare ad essere più attiva nel mondo anche se le sue priorità sono i problemi domestici interni. L’America vive una crisi sociale, politica e identitaria come non ha vissuto dai tempi della guerra del Vietnam. Non è mai stata così divisa al suo interno con una conflittualità domestica che si è esplicitata il 6 gennaio scorso, e che continua tutt’oggi. Questo senza dubbio rappresenta il primo grande problema dell’amministrazione Biden.
In secondo luogo, nella misura in cui l’America resta connessa al resto del mondo, tutti gli amici associati ed alleati dovranno convergere sulla pressione sulla Cina e secondariamente sulla Russia. Questo dovrebbe tradursi, soprattutto, nel tagliare il più possibile le connessioni nelle alte tecnologie e nelle industrie di punta legate alla difesa. Ciò non vuol dire evitare di commerciare con la Cina – il che sarebbe impossibile – ma evitare che i cinesi penetrino i sistemi sensibili. In terzo luogo, gli americani fanno intendere agli alleati europei di non contare su di loro per quanto riguarda la risoluzione delle problematiche europee interne ed esterne. Per fare un esempio, con riferimento all’Italia e alla questione libica: il nostro Paese dovrà giocare la sua partita autonomamente. L’America cercherà di dare una mano, ma è chiaro che non si può impegnare in altre avventure, men che meno di carattere militare.
Nel campo occidentale sono emersi, per evidenti motivi, due atteggiamenti differenti nei confronti della Cina. E’ possibile, a suo avviso, trovare una sintesi tra queste posizioni che col passare del tempo diventano sempre più divergenti?
È possibile ma è una sintesi dinamica che in questa fase non si può cristallizzare perché obiettivamente gli interessi sono diversi. L’interesse strategico americano è quello di tenere sotto la Cina, anche lasciando pendere la minaccia non esplicita, ma evidente, di uno scontro vero e proprio. Lì il punto chiave è Taiwan che gli americani stanno promuovendo come una seconda Cina indipendente -anche se non lo possono dichiarare apertamente perché in tal caso scoppierebbe la guerra.
Mentre i tedeschi, i francesi, i britannici e gli italiani – anche se questi ultimi in misura minore – sono talmente connessi alla Cina dal punto di vista economico commerciale, da rendere impossibile uno schieramento netto dalla parte americana contro la Cina. Come ha detto Macron, con un po’ di enfasi francese, “vogliamo mantenere una politica indipendente verso la Cina”.
L’Italia potrebbe porsi come mediatore tra le parti?
L’Italia al momento non è in grado di essere considerata come mediatore da nessuno. Inoltre, la nostra storia non ci permette, dopo essere entrati nell’Alleanza Atlantica, di uscirne se non, eventualmente, dopo una terza guerra mondiale. Avventure neutraliste e “terzaforziste” sarebbero velleitarie, contro i nostri interessi, e oltre ad isolarci ci esporrebbero a rappresaglie su tutti i fronti.
Un eventuale conflitto tra Russia e Ucraina che rischi potrebbe rappresentare per l’Europa?
Potrebbe rappresentare un rischio enorme se fosse un conflitto in cui venissero coinvolti contemporaneamente i russi e gli americani perché rischierebbe di tralignare in guerra mondiale. Nessuno dei due credo che al momento abbia voglia di imbarcarsi in un’avventura di questo genere ma, come si sa, spesso le guerre accadono non per volontà ma per accidente e purtroppo in Ucraina sono apparecchiate delle condizioni obbiettive che rendono questo Paese un possibile teatro di scontro dove la linea rossa è rappresentata dalla disponibilità della NATO ad accogliere l’Ucraina nel proprio seno. In quel caso la guerra è sicura. Ed è per questo che, probabilmente, ancora per qualche anno o decennio si preferirà non parlarne. Ma come si sa, in Ucraina succedono delle cose anche improvvise.
Non sarebbe preferibile che l’Europa si adoperasse come mediatore tra questi due grandi blocchi?
Quando l’Europa o, per essere più precisi Germania, Francia e Polonia cercarono di mettere becco nella partita Ucraina e, addirittura, raggiunsero un compromesso tra le parti in conflitto, 24 ore dopo scattò il colpo di Stato. Evidentemente, quando sono in gioco partite importanti in cui sono coinvolti russi e americani il ruolo europeo ed italiano è marginale.
Dai vertici di questi giorni potrebbero sorgere dei cambiamenti nel Mediterraneo, anche in merito ai rapporti con la Turchia e alla questione libica? E che ruolo giocherebbe l’Italia?
La presenza turca nel Mediterraneo è questione dei prossimi anni se non dei prossimi decenni. La Turchia è insediata a Tripoli, alla frontiera italiana, in una zona nevralgica a livello globale qual è lo Stretto di Sicilia, inteso come passaggio obbligato tra atlantico e indo-pacifico. L’Italia è, oggettivamente, in una posizione strategica importante, ma soggettivamente è troppo debole per farsi valere e quindi deve cercare qualche forma di compromesso – temo un po’ a ribasso per noi, – che credo con i turchi potremmo trovare.
Come leggere, e quali conseguenze potrebbe sortire, l’appello di Draghi sulla Libia: “la prima esigenza è di cessare il fuoco. Questo significa che i mercenari di altri Paesi devono andare via”.
Sono dichiarazioni che difficilmente possono essere seguite dai fatti. Siamo in una fase del conflitto molto limitata, anche se può esplodere da un momento all’altro, siamo in una fase di relativa calma in Libia con una linea che scende giù da Sirte verso il sud e che divide le principali aree di influenza. Il problema dell’Italia è che non ha, e non vuole avere, una forza militare spendibile, cosa che invece i turchi, i russi e anche i francesi hanno. Pertanto, siamo poco credibili e ciò ci pone in una situazione di svantaggio. Abbiamo importanti asset da giocare in campo energetico e finanziario, ma pensare che la fuoriuscita dei mercenari possa dipendere dalla nostra volontà è fuori dall’orizzonte.
Contrariamente alle aspettative, lo scorso 9 giugno è stata approvata la legge per l’istituzione della ZEE che pone come presupposto il dialogo con gli altri Paesi rivieraschi per la sua definizione. A che tipo di problemi potremmo andare incontro nel corso delle trattative?
Noi italiani abbiamo rinunciato a fare una nostra ZEE mentre gli altri si adoperavano a farla. Tale ritardo ha posto gli altri Paesi in una condizione di vantaggio. Pertanto prima cominciamo e meglio è.
L’Italia dipende fortemente dal mare ma a Sud si trova amputata dal punto di vista infrastrutturale. Quanto incide questa carenza in termini geopolitici?
La disconnessione nord-sud può diventare molto pericolosa anche in futuro. Ci accompagnano alcuni dati strutturali di carattere demografico, tra cui uno spopolamento della parte giovane, attiva e più brillante della popolazione che lascia il Mezzogiorno, ed in particolare quello concentrato lungo la faglia appenninica, quasi come una sorta di deserto. Ciò avviene mentre potenze come la Turchia e la Russia si affacciano proprio sul nostro Mezzogiorno. Questo, ovviamente non è una buona cosa sotto il profilo geopolitico. Inoltre, tale situazione, può indurre il nord a tentazioni separatiste dal momento che è ben connesso al sistema tedesco ed europeo in modo indipendente dal resto del Paese. Quindi, il rischio di separazione all’interno dello spazio italiano c’è.