Dietro l’io letterario offerto in pasto alla furia interpretativa dei lettori, correndo il rischio di coincidere con ciò che gli altri vogliono da lui, c’è un io più reale che va rintracciato nei carteggi epistolari che hanno la funzione di dissacrare l’immagine letteraria, frantumarla, per restituirci l’autenticità della persona. Il libro di memorie, esercizio di gratitudine, di Alina Diaconú Querido Cioran (Criterion Editrice), è un viaggio nell’amicizia di questa scrittrice di origini rumene naturalizzata argentina, con il grande pensatore Emil Cioran.Un’amicizia nata per caso, alla metà degli anni ’80, quando Alina, scrittrice affermata in terra argentina, si reca a Parigi con il marito. Immaginandosi inaccessibile il rumeno, Alina neanche spera di incontrarlo, e invece riesce ad ottenere un’intervista con quell’uomo, a dispetto dell’idea originaria, affabile e sereno nella sua disperazione.
Da allora, assorbirà da Cioran (e da un altro suo maestro, Ionesco) un’invincibile malinconia – tanto nel pensiero, quanto nella narrativa – che nel presente è tutta impegnata nello sforzo di riannodare il filo con un passato, soprattutto infantile, depositario dell’unica felicità possibile.
La Diaconú ricostruisce la propria geografia esistenziale, dei luoghi che coincidono con momenti e incontri decisivi per il destino, così la seguiamo, in uno di questi viaggi che dall’Argentina la portano in Francia, fino ad arrivare davanti alla grande porta di legno di una mansarda parigina, al numero 21 di rue de l’Odeon. Qui, la geografia di Alina, si intreccia con quella dell’apolide Cioran, la cui unica patria di adozione è la lingua. Scopriamo, aperta quella porta, un uomo minuto, con una folta capigliatura grigia e due inquieti occhi chiari, dalla presenza calda e avvolgente, la cui risata contagiosa convive sinistramente con il terrore di fronte alle vicissitudini dell’esistenza. Dalla felice infanzia – interrotta bruscamente per trasferirsi a Bucarest all’età di dieci anni – vissuta in montagna, a Răşinari, trascorrendo intere giornate fuori casa, a contatto con i maestri migliori che abbia avuto, contadini e pastori, fino all’esperienza dell’esilio che lui chiamerà “scuola di vertigine” e che gli insegnerà a dissociarsi per sempre dalle proprie origini, senza mai sentirsi a casa se non, come già accennato, nella lingua parlata e scritta. Il paradiso terrestre è esistito per Cioran, ma è rimasto confinato per sempre nella libertà perduta dei suoi dieci anni. Dice ad Alina che nessun avvenimento vale veramente la pena di essere raccontato e che scrivere è assurdo quanto il respirare, e poi: “Quando si è soli, si è Dio. Ed è per questo che scrivere è un atto straordinario, perché si arriva a competere con Dio”.
È un uomo riservato, che rifugge come la peste la notorietà, Cioran, che mette in guardia la nuova amica dal mischiarsi con gli ambienti accademici, l’università, ha detto altrove, è lo spirito in lutto, si fa filosofia nelle agorà. Distingue tra filosofi e pensatori e non nasconde la sua netta preferenza per i secondi: i filosofi sono miserabili che costruiscono sistemi, i pensatori, invece, scavano nell’esistenza, nelle proprie tragedie personali e una qualche verità può rivelarsi solo da loro.
Sono diversi gli incontri tra la Diaconú e Cioran a partire dal 1985 e fino alla morte di quest’ultimo, dieci anni dopo, il 20 giugno. Questi dialoghi registrati e trascritti nel libro, ci consegnano diversi funesti presagi sulla morte dello spirito europeo, mentre paesi come l’Argentina gli sembrano vivaci perché hanno ancora qualcosa per cui lottare, conservano una vitalità che le genti europee hanno seppellito in quella che chiamano civilità.
Quale speranza per il futuro, chiede idealmente Alina, immaginandosi un incontro a tre, con Cioran e Ionesco. Un taglia e cuci di dialoghi realmente avvenuti e che l’autrice assembla in un verosimile scambio di domande e risposte. Così, la visione del mondo, del futuro, del tempo presente, ammesso e non concesso che sia reale, si palesano in scarne e lapidarie parole, che non lasciano scampo. L’ateo Cioran crede filosoficamente nel peccato originale, in un’originaria corruzione da cui l’uomo non può riprendersi. E allora la storia è una trappola, una menzogna e tra ideologia e realtà si annida sempre l’assurdo; una corsa – conclude idealmente Ionesco in questo dialogo fittizio eppure reale – verso l’autodistruzione. Ma se i templi possono essere distrutti, se perfino le religioni possono sparire dalla faccia della terra, l’uomo da sempre e per sempre corrotto, non può fare a meno dell’assoluto. Cioran ha rancore verso il secolo, reo a suo dire, di aver soggiogato lui e gli altri suoi contemporanei al terrore del tempo. Lui non vagheggia, anticipa oltre i meri dati e presagisce, invaso dal sentimento della vita dice usando le parole di John Keats, un mondo i cui continenti saranno legati non attraverso la persuasione, ma dalla forza.
Il 20 ottobre del 1995, con la morte di Cioran, rue de l’Odeon cambierà per sempre i connotati, nei ritorni di Alina a Parigi. Da quel momento, la geografia di questa amicizia si sposterà nei sogni, nei cui resoconti si percepisce il senso di abbandono, e nelle memorie grate di questi incontri.