Quando ci piace obbedire

 
Italiavirus / La psicologia dell’isolamento
In situazioni di pericolo accettiamo un padre che ci dia ordini. Ma la democrazia richiede adulti responsabili e soggetti razionali.
la crisi vista da una psicoanalista
COSTANZA JESURUM
Volendo fare un paragone, si può dire il buon funzionamento psicologico delle persone è quello che somiglia al buon funzionamento di una democrazia matura per cui, nella gestione di problemi e occasioni, si hanno organi diversi, che assolvono funzioni specifiche, soppesando anche razionalmente le scelte che si devono operare. Una buona democrazia psichica ha un Parlamento interno costituito da istanze diverse, formazioni partitiche, minoranza e opposizione, forze progressiste e forze reazionarie, persino anche quelle piccole frange pericolose che non tutti considerano legittime.
Ci piacerebbe molto credere che il ponderato e critico funzionamento psichico che metaforizziamo con la democrazia matura, che dunque soppesa le scelte con un regolamentato dibattito interno, che valuta le situazioni alla luce di razionali bilanci in termini di costi e benefici per sé e per il prossimo, grazie a meccanismi di difesa superiori quali la razionalizzazione e l’intellettualizzazione, fosse sempre quello migliore per tutte le occasioni, perché questo ci renderebbe molto più facile la divisioni in buoni e cattivi, ci faciliterebbe nel compito della valutazione delle azioni nostre e altrui.
Purtroppo (e per certi versi anche per fortuna), esattamente come succede nelle vicissitudini politiche e in quelle ampiamente storiche – come l’emergenza che stiamo vivendo – non è sempre così e ci sono delle situazioni in cui la mente umana è programmata per assumere un funzionamento diverso, al fine della protezione di sé e della specie. Per esempio quando c’è una situazione di grande pericolo, non c’è il tempo materiale di soppesare tutte le istanze delle formazioni partitiche del Parlamento interiore e bisogna trovare un assetto diverso, per prendere decisioni rapide ed efficaci. Se per esempio siamo disarmati e dinnanzi a noi c’è un animale feroce che ringhia siamo programmati per provare paura e ascoltare la voce che ci istiga alla fuga, stabilendo senza troppe storie che l’animale è cattivo e noi no – mentre è da scartare un dibattito interno sull’etologia e il comportamento delle tigri nel loro ambiente. Utilizziamo difese più arcaiche e – o scappiamo perché una voce imperiosa dentro di noi ce lo sta ordinando, oppure qualora ce ne fosse una esterna che ce lo impone, le obbediamo senza troppo discutere. In altri termini, in una situazione di pericolo si diventa più disponibili ad assumere una posizione regressiva, meno matura, asimmetrica, potremmo dire filiale, dove si obbedisce a pochi ordini, che vengono percepiti come affidabili. Mentre nella democrazia matura si ha un soggetto responsabile che si assume la titolarità delle proprie scelte, in questi stati di allarme e di paura si ritorna a una forma regressiva e prepolitica e che, appena ne ha occasione, resuscita una figura genitoriale, la proietta su una leadership e si attiene ai dettami di quella. Insomma, il pericolo ci rende spesso tutti un po’ figli.
Questo spiega piuttosto bene la facilità con cui oggi la maggioranza dei cittadini italiani si è dimostrata disponibile ad accettare le restrizioni alle loro quotidiane libertà senza fare troppe domande – il che volendo arriva persino a stupire, se ci si ricorda i cavilli che paralizzano molti dei processi decisionali del nostro dibattito pubblico, i piccoli narcisismi, le puntigliosità. Se mettiamo insieme un qualsiasi congresso di partito con le strade vuote delle nostre città in questo momento c’è da rimanere sbigottiti. Ma è la conseguenza della paura: abbiamo capito che c’è un virus pericoloso che può fare male a noi, ai nostri cari, al nostro sistema sanitario nazionale, i contorni di questo pericolo anzi si fanno sempre più sfumati e minacciosi, siamo tutti portati quindi a regredire al rango di figli sotto la voce di un primo ministro che ci dice cosa bisogna fare e introiettiamo tutti i nuovi ordini per lo più con uno zelo inaspettato.
Certo non tutti, e il sospetto che viene adottando una prospettiva psicologica, o meglio psicoanalitica, è che dal momento che sullo Stato si tendono a proiettare regressivamente le proprie figure genitoriali, viene il sospetto che certi comportamenti riecheggino alcune vicissitudini private e gli stili con cui in generale si è affrontato il processo di smarcamento dalla famiglia d’origine. Quindi si osservano, per esempio, molti che accolgono le direttive con un senso di sollievo, obbedendo e deresponsabilizzandosi, come le giovani madri che possono dormire una volta che viene la nonna a guardare i figli e tornare figlie anch’esse, e sono forse la maggioranza. Poi ci sono quelli che hanno una sorta di rigurgito individualista ed adolescenziale, che contestano la ratio delle regole forse come avevano fatto, o avrebbero voluto fare, da ragazzini quando protestavano contro i compiti scolastici o polemizzavano perché gli veniva richiesto di avvertire a casa se passavano la notte fuori. Questi, cioè, reagiscono come se le prescrizioni da contenimento del virus fossero la chiamata alle armi di una seconda contestazione adolescenziale. Infine ci sono quelli – se possibile ancora più regressivi e financo sinistri – che invece le regole le osservano con zelo indomito, e si candidano come delatori ad honorem di vecchietti che comprano l’amuchina o di signore sovrappeso che corrono nel viale alberato, verso un alimentari a 500 metri da casa anziché 200. Questi, nella loro parossistica devozione al potere, che ricade in una fuga dalla morale, ricordano un po’ quei figli maggiori a cui i fratelli nuovi arrivati hanno tolto la condizione dorata dell’unicità, e che cercano di mantenere lo sguardo genitoriale attento su di loro sottolineando tutti i quattro presi a scuola dal nullafacente quanto amato, e ricordando pieni di livore quanto poco meriti l’affetto della madre, considerando gli amici poco raccomandabili con cui fa tardi la sera. Il coronavirus per costoro diventa l’occasione per rivivere l’antica rivalità con la fratria.
Certo la coercizione è uno stato transitorio, emergenziale e adatto in tempi di pericoli e di minaccia, economizza sulle scelte, sui tempi e sulle energie, non ci costringe a fidarci troppo del grado di sofisticazione del prossimo, è uno stato adatto a circostanze di vita in cui ci viene il sospetto che ci sia qualcosa di più importante della nostra libertà, ed è la nostra pelle, senza la quale, oggettivamente, la libertà è una cosa piuttosto inutile. Tuttavia non dobbiamo scordarci che questo tipo di assetto, obbediente e filiale, se va bene per contrastare la pandemia, non va bene per tutto il resto, quanto meno non per il tipo di psicologie che ha cresciuto la nostra storia culturale e politica: siamo italiani, siamo europei, abbiamo teorizzato e messo in pratica le democrazie parlamentari, ci siamo abituati a votare e a decidere, e anche nei nostri microorgani associativi, dalle scuole, ai condomini, alle famiglie abbiamo fatto tramontare i padri e siamo entrati in un regno dello scambio dei pareri delle discussioni interne delle nostre scelte. Il nostro benessere psichico combacia con l’esercizio di una ponderata libertà. Forse è bene allora che per il nostro benessere futuro, giacché questa emergenza prima o poi finirà, proprio quei soggetti pubblici che al momento ricoprono un ruolo di leadership e psicologicamente si ritrovano a indossare le nostre proiezioni genitoriali, si comportino come dei genitori che a un certo punto spiegano ai figli come si è persone adulte, soggetti responsabili, soggetti razionali, e, mentre dicono che non si deve uscire e obbedire alle regole della casa, devono continuare ad andare in Parlamento, a far vedere come si fa funzionare la civiltà adulta anche, ragione di più, in una situazione di emergenza.
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