di Pietro Citati
Non ho mai conosciuto il nome di Ferenc Karinthy. La casa editrice Adelphi recupera dal nulla questo scrittore ungherese, vissuto tra il 1921 e il 1992, e pubblica il romanzo Epepe , uscito nel 1970. È un libro bellissimo, nel quale un profondo senso di estraneazione e di angoscia, che risale al Processo e al Castello di Kafka, dà luogo a variazioni sommamente originali.
Un linguista ungherese, il professor Budai, deve andare a Helsinki, per tenere una relazione al congresso di linguistica. All’aeroporto di Budapest sbaglia uscita, sale su un volo diretto altrove, e scende in una città ignota: si accorge di non essere a Helsinki solo quando arriva in città. Quando arriva all’albergo, un usciere con un berretto bordato d’oro gli rivolge un solenne saluto militare. Budai gli parla in finlandese: l’usciere non capisce; l’altro gli rivolge la parola in inglese, tedesco, russo, francese, e il portiere gli risponde sempre in una lingua, che il professore, che conosce molte lingue, non ha mai inteso. Alla reception ci sono targhette indecifrabili, scritte in lettere mai viste. Budai non può parlare con nessuno: in risposta ascolta parole con suoni gutturali, vocali mormorate e di colore variabile, consonanti rauche e biascicate, talvolta accompagnate da suoni occlusivi e schiocchi di lingua. Questo è il grande tema del libro: non poter parlare con nessuno: ascoltare risposte in una lingua indecifrabile; tema svolto con una fantasia tragicomica che non ha mai fine.
La camera di Budai è piccola e misteriosa, ed egli non vi trova alcun segno che gli faccia riconoscere la parola e il luogo. Dovunque, scritte misteriose. Solo i numeri sono gli stessi che egli conosce: quello della camera è il 921. C’è il telefono sul tavolino da notte: Budai fa un numero a caso: dice il nome della sua città natale e il numero del telefono di casa sua; e, dall’altra parte del telefono, dapprima c’è silenzio, poi sempre un sussurro incomprensibile, un chiocciare di vocali e consonanti. Fa un altro numero nella convinzione che, prima o poi, avrebbe azzeccato la linea delle chiamate internazionali. Ripete la sua filastrocca: grida fino a diventare rauco; e in risposta non ottiene che canzonette, voci ora maschili ora femminili ora infantili ora senili, nessun segno di comprensione. Poi, a un tratto, nella stanza irrompe una telefonata, che viene da nessuno e cerca nessuno.
Budai va a letto. Dorme, a lungo, forse due o tre notti. Durante quelle ore non compare nessuno: nessuno telefona o bussa alla porta. Viene assalito da un indefesso lavorio mentale: convinto che se esamina in ordine tutto quanto era successo, qualcosa sarebbe per forza venuto alla luce. Non accetta, non vuole accettare la situazione. Accettare la situazione, anche in modo inconsapevole, significherebbe rassegnarsi, arrendersi, perdere la sola cosa che gli dà speranza: la certezza di essere diverso dagli altri abitanti della città sconosciuta, di essere uno straniero, capitato lì per errore e del tutto estraneo a quel luogo.
Pensa alla moglie, al figlio, ai suoi parenti. Certo aspettano che torni quattro, al massimo, cinque giorni dopo la sua partenza: avrebbe già dovuto essere a casa. Chissà cosa pensano del fatto che non ha scritto, telefonato, mandato un telegramma, dato un segno di vita. Immagina il loro smarrimento, l’agitazione, le ansiose congetture, i tentativi sempre più disperati di comprensione, il timore di un incidente: queste immaginazioni gli danno un dolore quasi fisico, che si somma alla sua impotenza. Prova una nostalgia sempre più acuta di sua moglie, del figlio, del lavoro, del suo ambiente di linguisti e di lessici.
Nell’ascensore, che percorre su e giù i diciotto piani dell’albergo, incontra l’ascensorista: una bella ragazza bionda in uniforme blu. È snella e slanciata: i tratti del suo viso ovale sono delicati. La fissa a lungo. Quando, per la prima volta, la scorge sorridergli, si sente assalito da un misto di fiacchezza e di tenerezza, e dall’improvviso desiderio di starle vicino e di riposare in un letto, al suo fianco. Avrebbe aspettato che la ragazza prendesse sonno, ascoltato il suo respiro, sentito il battito nelle sue vene attraverso la pelle sottile dei polsi. La ragazza gli rivolge la parola: certo parole incomprensibili, rivolte a parole ugualmente non comprese. Sorride al suo sorriso.
La volta successiva, giunti al nono piano, la donna gli posa la mano sul braccio e lo trattiene: Budai capisce che vuole invitarlo da qualche parte. Arrivato all’ultimo piano, il diciottesimo, nell’ascensore rimangono solo lui e la donna, che gli fa cenno di scendere. Gli sorride di nuovo, come per scusarsi: è fresca, vivace, serena e i tratti del suo viso sono spigliati. Con voce morbida gli dice qualcosa come: jeje tlehnathan …Muula thalaalli? E scoppia in una risata lenta e sommessa. Budai si picchia il dito sul petto, ripete il proprio nome più volte, poi indica la ragazza con aria interrogativa. Lei ride di nuovo e risponde con una parola di due sillabe: Pepe, Tete, o forse Bebe, Veve, Dede, o forse Epepe. Budai si sente elettrizzato: per quanto esile, è pur sempre un legame, un rapporto, il primo da quando è giunto nella città sconosciuta — se lo mantiene e lo coltiva, forse può diventare il filo di Arianna di quel labirinto.
Quando non sta con la ragazza, la vita gli appare vuota e priva di senso. Una volta appena le rivolge la parola, gli occhi arrossati della ragazza si riempiono di lacrime, tira fuori un fazzoletto gualcito, e comincia a piangere. Budai la guarda turbato: come consolarla senza ascoltarla, senza saper che cosa la fa soffrire? La ragazza lo bacia: ma Budai è stato dal dentista, ha le labbra ancora gonfie e intorpidite dall’iniezione, e la gengiva ferita.
Finalmente una sera, quando è chiuso nella sua stanza, Dede o Veve o Epepe entra, si libera dagli abiti, e si sdraia accanto a lui sotto le coperte. Lui la possiede. Epepe si lascia andare molto lentamente. Poi si mette a parlare sotto voce, esitando, facendo delle pause: Budai tenta di indovinare qualcosa dal tono della voce, dal ritmo del discorso, dall’inflessione: ma non è possibile. Alla fine ridono insieme, sebbene non capiscano per che cosa. Epepe si lascia andare completamente e insieme raggiungono il culmine della fusione. Tutto il resto cessa di esistere — sebbene, certo, la mancanza di parole aleggi su di loro come il velo dell’eterna separazione.
Qualche volta Budai esce dall’albergo. Fuori trova una quantità esorbitante di pedoni e di veicoli: ressa, suono di clacson; non riesce a spiegarsi dove si dirigano tutti così in fretta, chi sia quella gente, da dove venga quella piena inarrestabile di esseri umani. I colori del viso degli abitanti sono diversi, dal nero carbone al bianco latte, passando per il bruno: la maggior parte di essi nasce da un incrocio di razze; ma egli non riesce a capire se si trovi in Europa, in Africa, in Asia o in quale altro continente sconosciuto.
Entra in quella che sembra una grande chiesa: non è un luogo di culto cristiano, né ebraico, né musulmano. C’è una cerimonia funebre. Un sacerdote alza e spalanca le braccia, tanto che le ampie maniche dell’abito talora gli scivolano fino ai gomiti: chiude gli occhi con un’espressione quasi voluttuosa, e declama delle parole con voce metallica, ripetendole due volte. Queste parole producono nell’uditorio l’effetto di un’eccitazione senza freni: tutti cominciano a singhiozzare, a gridare e si prosternano a terra finendo l’uno sull’atro. Si spogliano, restando in lunghi mutandoni, nonostante il freddo, quasi a offrire la propria nudità a Qualcuno.
Budai si sente contagiare dall’ebbrezza di quella devozione; e prova il desiderio di gettarsi sul pavimento insieme agli altri. È come stordito, invaso da una gioia estatica, felice di fondersi nella grande comunità dei credenti: è la prima e unica volta che si sente come gli altri. Ma quando si rivolge al sacerdote prima in latino e in greco, poi in ebraico, il sacerdote rimane immoto, e sul suo volto non appare alcun segno di comprensione. Mai, mai Budai potrà varcare la barriera invisibile che lo tiene lontano da tutti.
Budai rimane ancora qualche tempo nella città sconosciuta. Viene cacciato dall’albergo, e non riesce a rientrarvi. Perde la ragazza bionda. Gli resta una sola passione: la caparbietà, quell’indefinibile accanirsi, quell’inspiegabile furore, quella resistenza che gli impedisce di arrendersi. Vuole andarsene: questa è la cosa essenziale, l’unica cosa essenziale. Un giorno trova un lago, con l’acqua che muove e si agita: un piccolo lago che, forse, prima o poi sarebbe confluito in un fiume, e il fiume nel mare; e lì Budai avrebbe potuto trovare un porto, una nave e sarebbe stato libero di andare a casa. È pieno di fiducia, sebbene per lui il mondo delle parole condivise resti ancora chiuso.