Di Massimo Franco
Matteo Renzi ammette che al Senato ha ricevuto «un messaggio politico» dalla minoranza del proprio partito. Ma giura di non essere preoccupato. «Ci sono i numeri per andare avanti più convinti e decisi di prima», sostiene. La sicurezza del premier non sembra scalfita dalla bocciatura della maggioranza dell’altro ieri sulla Rai, dunque; né dal pasticcio sul «no» all’arresto del senatore del Ncd, Antonio Azzollini. «Non siamo passacarte della Procura di Trani», commenta con una punta di spavalderia. In realtà, continuano ad emergere analisi agli antipodi su quella votazione, tutte degne di rispetto. Il fatto che Renzi prenda onestamente atto di questi segnali conflittuali finisce comunque per riproporre il problema dei confini della coalizione a Palazzo Madama. Il premier invita a fare polemiche dentro il partito: anche perché lì la sua leadership è incontrastata. Eppure, il sospetto è che sarà il Parlamento, e soprattutto il Senato, il luogo dove si ritroverà a combattere con gli avversari; e cioè dove è più debole. Dire che non ha paura della minoranza dei Democratici, e rivendicare «un patto con gli italiani» sembra un invito alla responsabilità difficilmente accolto dai suoi interlocutori. L’ipotesi, fondata, che il governo possa trovare sponde presso altri gruppi, a cominciare dalla pattuglia ex Forza Italia di Denis Verdini, è destinata a riproporre e ad incattivire lo scontro a sinistra; e a saldare strane alleanze trasversali non solo a favore ma anche contro Palazzo Chigi. La cosa preoccupante è che in una situazione così sfilacciata diventa gioco facile, per il Movimento 5 Stelle e le altre opposizioni, accreditare un esecutivo «alla frutta»; e darne la colpa, come fa il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, «alle varie correnti all’interno della maggioranza». Un nemico irriducibile di Palazzo Chigi come Renato Brunetta arriva a dire che Renzi dovrebbe essere convocato al Quirinale. Secondo il capogruppo di FI alla Camera, si sarebbe creata una situazione simile a quella che portò Silvio Berlusconi a gettare la spugna nel 2011. Ma le parole di Brunetta sembrano soprattutto tese a difendere il suo leader e ad attaccare il predecessore di Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano; e a contestare i governi che si sono succeduti da allora fino a quello di Renzi, appunto. Per il presidente del Consiglio non è questo il fronte più scivoloso, tuttavia; e nemmeno le polemiche su una riforma della Rai fatta con la vecchia legge Gasparri. A rimettere in tensione il governo è l’andamento dell’economia. I segnali altalenanti sul mercato del lavoro, arrivati ieri dall’Istat, costringono Renzi sulla difensiva. E lo espongono a critiche abrasive. Il Jobs act continua a non garantire una vera ripresa. Le percentuali di giugno dicono che c’è un nuovo aumento della disoccupazione, con quella giovanile al 44,2 per cento: una percentuale toccata solo nel 1977. Può darsi che le prossime rilevazioni forniscano risultati meno negativi. Renzi spera nel settore della scuola e della cultura. Ma intanto il sindacato attacca. E questi alti e bassi propagano un senso di incertezza sull’efficacia delle misure dell’esecutivo.