La serie L’arte e il contagio
di Antonio Natali
L’odierna clausura, avvertita come una condanna immeritata, andrebbe invece messa nel novero delle occasioni per riprendersi la vita. C’è finalmente il tempo per coltivare pensieri e sentimenti; che sono i semi della creatività. Non mancano nel passato esempi di chi fra gli artisti abbia dato prove altissime della sua poesia proprio nell’isolamento imposto dal contagio di morbi mortali. A cominciare dal Pontormo; che per tutta la vita mostrò insofferenza grande nei confronti degli altri. Per via di fobie tenaci rifuggiva gli assembramenti; ma era talora di gran tormento per lui anche il contatto con una o due persone soltanto. Pur d’evitare un incontro si nascondeva o faceva finta di non esserci. C’erano giorni in cui si negava a chiunque lo cercasse, e si rinchiudeva in casa; che a detta di Vasari aveva l’aria d’una dimora “da uomo fantastico e soletario”. Perfino al Bronzino – che di lui era allievo, ma, più che allievo, fratello o, meglio, padre – si negava talora, tirando su la scala che dava accesso alla stanza dove dormiva e qualche volta lavorava. E il discepolo, d’una decina d’anni più giovane, era costretto ad andarsene, lasciando supporre al maestro che se n’era partito convinto di non averlo trovato. Non sarà difficile allora credere che al Pontormo sia riuscito grato il ritiro eremitico conseguente all’arrivo della peste a Firenze sullo scorcio del 1522. Chi se lo poteva permettere sfollava, ricoverandosi nelle campagne. E Jacopo riparò alla Certosa del Galluzzo.
Bisognerà forzare l’immaginazione per farsi un’idea almeno approssimativa di cosa fosse quel monastero, cresciuto come una corona sulla cima d’un monticolo erto sulla piccola valle dell’Ema. Oggi un intrico di vie lo soffoca, strozzandolo da ogni lato; e un assiduo rumore, strisciante d’auto, ne turba quel silenzio che nel Cinquecento era rotto solo dai suoni della natura nel bosco. Scrivendo la biografia del Pontormo, Vasari s’allunga nel rendiconto dell’esilio di lui in quel posto d’incanto. Ce l’avevano chiamato i certosini perché affrescasse storie della Passione di Cristo nel chiostro grande. E Jacopo aveva portato con sé soltanto il Bronzino; ventenne, ma già conforto indispensabile ai disagi che gli procurava il mal di vivere; un male ineluttabile per chi, come lui, nei primissimi anni d’esistenza aveva perso padre, madre e nonno, potendo alla fine contare unicamente su una nonna che lo cresceva, e che poco dopo – lei pure – morì. Non è necessario essere analisti della psiche per convincersi che Jacopo n’abbia poi risentito tutta la vita; specie nelle relazioni con gli altri. Non a caso Vasari tramanda che del romitorio certosino il Pontormo amò “ quel modo di vivere, quella quiete, quel silenzio e quella solitudine”. Ne fu a tal segno conquistato da metter più tempo del dovuto nell’impresa degli affreschi nel chiostro. E quando poi la peste declinò e lui poté fare ritorno a Firenze, non smise di frequentare il monastero e dalla Certosa continuò ad “ andare e venire”, dipingendo per i monaci altre opere. Le sue scene della Passione nel chiostro furono violentemente attaccate da Vasari per la loro stretta dipendenza dalle stampe d’identico soggetto di Dürer, pur da Vasari definito “ eccellentissimo pittore tedesco e raro intagliatore di stampe”. Stampe che venivano di Germania; come di Germania venivano, giusto a quei tempi, tesi teologicamente pericolose. E davvero in quei lunettoni l’espressione formale di Jacopo batté come un terremoto nell’eloquio degli artisti fiorentini d’allora; i quali d’altronde non erano rimasti punto indifferenti al cospetto delle carte düreriane, arrivate in città sul 1515. Ma Vasari, ch’era uomo di corte e propugnava la lingua toscana, non poteva tollerare che un conterraneo ( di valore, peraltro) n’offendesse vocaboli e sintassi, guastandola con un idioma straniero. E con asprezza ironicamente si chiede se Jacopo non sapesse che gli artefici tedeschi e fiamminghi calavano nelle nostre terre per imparare quella maniera italiana che lui s’era ingegnato a macchiare. Il Pontormo seguitò su quell’indirizzo linguistico per pochi anni. Poi tornò – avrebbe detto Vasari – alla “ vaghezza” della sua espressione, “ tutta piena di dolcezza e di grazia”. Quella vaghezza che a noi è dato oggi sperimentare nella lirica coreografia della Deposizione di Santa Felicita. Così differente dagli affreschi della Certosa; e tuttavia lì germinata, nella felicità goduta proprio durante un contagio crudele: in quella quiete, in quel silenzio, in quella solitudine.