Incontriamo la Speranza raffigurata nelle xilografie degli Emblemata che Andrea Alciato pubblica nel 1531. Ritroviamo la sua immagine nelle ricche edizioni del 1593 e del 1603 dell’Iconologia di Cesare Ripa. Un tratto le è regolarmente conferito: d’esser cioè intenzionata la speranza a un accrescimento di opportunità favorevoli, da mettere in mora e neutralizzare impedimenti, mancanze e dolori attuali. Un tratto della speranza resa in allegoria è convalidato dalla rappresentazione che ne fa in una elegia Tibullo (II, 6, 21-22): «la speranza affida ai solchi arati/i semi perché il suolo li restituisca a usura».
Bene, così, ce la descrive Ripa: «Una fanciulletta allegra, con un vestito longo e trasparente e senza cingersi, tiene con dui dita della mano un’erba di tre foglie, e con l’altra mano s’alza la veste, e par che camini in punta di piedi». Verde è il colore della sua veste perché, aggiunge Ripa: «L’erba chiamata trifoglie è quella prima erba che nasce dal grano seminato, e questo è quello che si chiama il verde della speranza». Giacché sempre, la speranza, quando e finché è viva, («mentre che la speranza ha fior del verde» nelle parole di Dante), si dà come lo spuntare d’un primo fragile sboccio, e, se viene meno e cade, cede il campo, così dicevano i Romani che la venerarono, ai suoi fratelli: il Sonno, che sostenta i dolori dell’uomo, e la Morte, che li annulla. Molti, credo, rivolgono oggi, in epoca di crudele pandemia, un pensiero alla speranza. Sono, questi dell’autunno del 2020, le quotidiane notizie delle morti che il contagio semina nel mondo, giorni di diffuso dolore.
Nell’autunno di ottanta anni fa, nel 1940, da dodici mesi l’Europa in guerra e, dal giugno, in armi l’Italia che è scesa nel conflitto, una grande inquietudine si diffonde e una cupezza, che le fanfare non sciolgono. Sembra allontanarsi ogni ragionevole speranza nel futuro che incombe. A Roma, un giovane uomo appunta su due foglietti certi suoi versi, per poi dimenticarli. Sono versi intitolati Alla speranza, stilati da Pietro Ingrao, al tempo venticinquenne. Li ho ritrovati fra vecchie sue carte manoscritte che trattano delle Myricae di Giovanni Pascoli, contengono appunti sulle liriche di Frantumi di Giovanni Boine, e considerazioni sull’Esame di Renato Serra. Su un foglio strappato leggo: «Perché io mi abbandono ad una vena e poi tutt’a un tratto la tronco, la considero con severità, la stacco quasi da me, la ripudio? È cosa di quasi ogni nostra quotidiana esperienza. Pare che per l’arte sia utile, necessario, questo modo di essere e c’è una qualche verità nascosta. Pare. Rifletterci».
Trascrivo qui, di seguito, la lirica Alla speranza, senza commento. «Ora che tu sei morta e cadono su me/i segni del buio,/aspetterò il sonno./Nemmeno il sonno ci appartiene./Poiché/anche nel sonno/segni non nostri,/mondo che non volemmo,/ci possiederanno,/tenteremo il lamento./Ma nel lamento la musica:/tu non sei morta,/consolaci.//Aspetteremo nel sonno il domani, in quell’altro/costretto mondo aspetteremo/l’alba, il suono della campana/che non toccammo:/la nascita. O la morte.//Perché ci lamentiamo della morte,/se non ci lamentiamo/della sigaretta che si spegne/del vento e della luce./Non demmo vita all’albero,/non nacque dalla nostra/luce la luce,/su quella fronte/non segnammo il sopracciglio.//Battaglia di notte è la battaglia nostra./Continueremo a fuggire?/a piangere l’atto/che non compimmo,/a cercar l’atto da compiere,/nostre compagne ancora/le immagini di ieri?/Ancora, senza vederlo, si leverà/il compagno dimenticato,/il noi che fummo o/non fummo/a guidarci con la mano/invisibile.//In altro tempo/impareremo a dubitare dell’ingenua/favola che ti dice moritura./Quando/spezzato il filo che ci tiene/calasse/l’impossibile, il nulla,/nasceremo ad un altro mondo.//Guarderemo a noi come/all’albero di cui non si piange/la morte. Amen. Segno/che vivi, speranza//Se nulla è mio,/non la luce,/non la pace,/non il sonno,/se nemmeno il dolore è mio,/tu sei dell’uomo, o speranza./Questo è il mio saluto/oggi, in questo inizio di notte,/quando sembri morire,/saluto l’oscuro dio che ti volle».