Quell’incontro prima del delitto
ROMA «Piersanti Mattarella venne a parlarmi di un quadro politico, non di un’emergenza criminale. Ero un collega di partito che per ventura si trovava a fare il ministro dell’Interno; lui era moroteo io della corrente di Base, avevamo posizioni vicine. Mi illustrò una situazione interna alla Dc siciliana, ed era allarmato non per sé ma per il segretario regionale Rosario Nicoletti (morto suicida nel 1984, ndr ), che aveva anche manifestato l’ipotesi di abbandonare l’attività politica. Non mi chiese aiuto né manifestò timori particolari per la sua persona, e io sinceramente non avvertii una situazione di pericolo per lui».
Il ricordo di Virginio Rognoni dell’incontro col presidente della Regione siciliana che di lì a tre mesi sarebbe stato assassinato, è lo stesso consegnato ai magistrati che in più occasioni l’hanno ascoltato come testimone. Era l’ottobre 1979, più di trentacinque anni fa, quando Piersanti Mattarella, fratello del neopresidente della Repubblica, salì su un aereo per andare a Roma a parlare col ministro; e al suo ritorno, nella stessa giornata, confidò al capo di gabinetto Maria Grazia Trizzino ciò che — precisò — «non dirò né a Sergio né a mia moglie»: il faccia a faccia con Rognoni e un avvertimento: «A questo incontro è da ricollegare quanto di grave mi potrà accadere». Il 6 gennaio 1980, due killer rimasti ignoti lo assassinarono in strada a Palermo, appena uscito di casa.
«Quando fu ucciso io non ricollegai il delitto a ciò che mi aveva detto — racconta adesso Rognoni — perché, ripeto, fece discorsi attinenti alla politica locale, non il preannuncio di qualcosa che potesse capitare a lui. Certo, denunciò un quadro allarmante, l’esistenza di un establishment che ostacolava la sua intenzione di fare pulizia soprattutto nel campo degli appalti e aveva un referente politico dentro il partito nella persona di Vito Ciancimino. Ma aggiunse che sarebbe andato avanti convintamente e serenamente, e non mi parlò di rischi o minacce per la sua persona».
Dunque la testimonianza dell’ex ministro — quella di oggi come quelle rese agli inquirenti dopo che Sergio Mattarella, all’indomani del delitto, fu informato dell’incontro con Rognoni dalla signora Trizzino e ne riferì ai magistrati — non risolve il mistero sull’angoscioso presentimento del presidente della Regione dopo l’incontro al Viminale. E ne conferma un altro: il contesto non solo mafioso del delitto. Perché se l’omicidio Mattarella è da ricollegare, come lui stesso preannunciò, al colloquio col ministro; e se il colloquio col ministro, come ribadisce oggi Rognoni, ebbe contenuti solo politici, allora il movente del delitto dev’essere anche politico. Ma le inchieste e i processi non sono riusciti a svelarlo.
«In quel periodo — sostiene Rognoni — la parola mafia era solo un vocabolo. Utilizzato e persino banalizzato da chi lo usava per affermare che fosse solo un’invenzione, e chi invece gli attribuiva ogni tipo di nefandezza. Solo dopo, con la legge che porta anche il mio nome, è diventato un reato a sé. Prima, per condannare, bisognava individuare e provare i singoli reati specifici».
Sul piano giuridico è così, però nel 1979 la mafia aveva già ammazzato, e non soltanto all’interno delle faide tra cosche; molto tempo prima era stato ucciso il procuratore Scaglione e in quello stesso anno, tra luglio e settembre, erano caduti il capo della Squadra mobile Boris Giuliano e il consigliere istruttore (appena nominato) Cesare Terranova. Possibile che un ministro dell’Interno non si rendesse conto della gravità della denuncia di Piersanti Mattarella, anche solo sul piano politico? «È possibile perché non so nemmeno che cosa avrei potuto fare — risponde Rognoni —. Mi pare che Mattarella avesse già una protezione, e purtroppo s’è visto che non sono le scorte a garantire la sicurezza. Anche il giudice Terranova l’aveva, e non servì. In quel periodo la stessa magistratura si mostrò all’epoca un po’ frastornata da quanto stava accadendo; c’era una lettura della mafia, che ancora non sapevamo che si chiamasse Cosa nostra, piuttosto confusa. E ciò nonostante ci fossero già i rapporti di polizia che poi sfoceranno nel maxiprocesso».
Per quanto disarmante possa apparire, questo è il contesto colto dal ministro dell’Interno di allora e ribadito oggi. Nemmeno il nome dell’ex sindaco Vito Ciancimino, indicato da Piersanti Mattarella come l’ostacolo alla politica del rinnovamento, bastò ad allarmare Rognoni? «Di Ciancimino tutti a Palermo sapevano che era un personaggio contiguo alla mafia — risponde l’ex ministro —, anche gli inquirenti e gli investigatori, ma evidentemente non c’erano gli strumenti sufficienti per fermarlo. Le accuse concrete nei suoi confronti arrivarono solo dopo. In ogni caso Piersanti Mattarella mi illustrò un quadro politico, non altro». E allora come si spiega quella confidenza al capo di gabinetto? «Non lo so, io questa signora non l’ho mai conosciuta. Il linguaggio dei siciliani è particolare, ma io ricordo nettamente ed esclusivamente la denuncia della corporazione che stava dietro Ciancimino».
Forse neppure la politica era preparata all’emergenza mafiosa. Dice Rognoni: «Il salto di qualità avvenne con la nomina del generale Dalla Chiesa a prefetto di Palermo, un segnale dell’impegno di tutte le istituzioni, com’era avvenuto nella lotta al terrorismo». Della vicenda del fratello assassinato l’ex ministro ricorda di aver parlato anche con Sergio Mattarella: «L’ho conosciuto dopo, quando la tragedia di Piersanti era ancora vicina, e ne discutemmo negli stessi termini che sto illustrando ora. Sergio arrivò alla Camera nel 1983, quando io divenni capogruppo. Sarà un ottimo presidente, anche perché porterà con sé il timbro della Corte costituzionale. E questo è una garanzia. Ieri gli ho mandato un telegramma: «Bravo Sergio, un abbraccio. Siamo tutti rassicurati».