Peter Sloterdijk.

 

Straparlando
Un paio di mesi fa Peter Sloterdijk è stato a Roma, in occasione della laurea honoris causa che l’Università di Roma Tre gli ha conferito. Bella e intensa la laudatio tenuta da Giacomo Marramao con Peter visibilmente felice per il riconoscimento. Sloterdijk vive a Karlsruhe, dove è anche nato nel 1943 e dove è stato rettore nella omonima università. Passa alcuni mesi dell’anno in Provenza ed è un uomo a un tempo appartato e socievole. I suoi tratti caratteriali rinviano alla prosa di un personaggio irregolare: affascinante e controverso. Habermas, in anni ormai distanti, lo ha attaccato violentemente: troppo conservatore, anzi un pericoloso reazionario, decretò. L’idea che Sloterdijk riducesse noi poveri mortali a una sorta di parco umano addomesticato e addomesticabile ha fatto saltare la mosca al naso a numerosi accademici e intellettuali. Eppure, se oggi si guardasse al pensiero europeo, difficilmente si potrebbe fare a meno del punto di vista di questo eterodosso della filosofia che è stato un contestatore alla fine degli anni Sessanta e in qualche modo legato alla predicazione indiana nel decennio successivo. Ha pubblicato in questi giorni, per Bollati Boringhieri, una raccolta di saggi Che cosa è successo nel XX secolo?. Già, che cosa è accaduto, in quel Novecento che continua a tormentarci con il suo volto di Medusa? «È stato un secolo segnato dalla passione del reale e al tempo stesso dalla fuga della civiltà occidentale dal dogmatismo della pesantezza», dice. A volte le parole di Sloterdijk ricordano quelle di un venditore di giocattoli (o di sogni), di cui le “Sfere” sono il più ambito e singolare dei doni.
A quando risale il suo interesse per la filosofia? «Dal tempo del ginnasio, quando avevo tredici anni. All’età di quindici anni, durante l’ora di religione, tenni davanti alla classe una relazione sulla critica alle prove dell’esistenza di Dio. Colsi una certa meraviglia in chi ascoltava e in me la soddisfazione di aver messo a frutto certi insegnamenti. Sono stato per lo più un talento cresciuto al riparo degli eccessi della didattica. E sono tuttora convinto che, se si apprende qualcosa, ciò accade non grazie alla scuola ma a dispetto di essa».
Non ci sono maestri nella sua formazione? «Nel senso stretto della parola maestri li ho avuti al liceo. Dopo ci sono state solo occasioni, incontri dettati dalla casualità. Mi sentivo troppo indipendente per aderire a una scuola».
C’era più superbia o consapevolezza nei suoi mezzi? «Forse entrambe, chissà. Quel tempo fu per me segnato da un grande bisogno di teoria. Affrontai e conobbi rapidamente gran parte delle scuole in voga allora: fenomenologia, idealismo tedesco, esistenzialismo, psicoanalisi, marxismo, formalismo russo, strutturalismo e teoria critica. Era il gran bazar culturale dei tardi anni Sessanta. Quell’abbondanza mi riempiva di gioia. Ho conosciuto così la felicità dell’onnivoro che fino a oggi non mi ha mai abbandonato». A tratti lei ricorda un personaggio uscito dalla mente di Rabelais. Ma è come se non si accontentasse dei cibi di cui si nutre. Vuole cambiarne le ricette.
«A cosa pensa?».
Penso ad esempio al suo lavoro di alta cucina negli intingoli della scuola di Francoforte, da cui pure a un certo punto sembrava un autentico erede.
«Nel momento in cui mi sono dedicato ad attraversare i territori dell’antropologia storica e filosofica, il mio pensiero è andato oltre l’orizzonte di quella vecchia scuola. Dietro la “Scuola di Francoforte” si nascondeva il neomarxismo e questo ha fatto sì che negli anni sia divenuta sempre più obsoleta. Il marxismo è oggi solo un modo fra gli altri per non comprendere il mondo. Sa indicarmi un solo problema che potrebbe essere chiarito attraverso l’impiego delle categorie di Adorno o Habermas?».
Ha mai conosciuto personalmente Adorno? «No, non ci siamo mai incontrati e devo confessare che non mi rammarico per questo».
Perché? «Mi è stata risparmiata una delusione. Preferivo ammirarlo da lontano. Mi piaceva credere di essere al cospetto di una stella di prima grandezza. Alcuni decenni dopo mi sono accorto che si trattava di un’illusione ottica».
Con Habermas il contrasto è stato molto più duro.
«Non per colpa mia e francamente non ho voglia di soffermarmi oltre sulla tensione che ha caratterizzato la mia relazione con lui. Se ne è già detto fin troppo».
Beh, le ha dichiarato guerra su tutta la linea.
«Mi ha bollato come un nemico dal momento in cui – durante un convegno a Baltimora alla fine degli anni Ottanta – ha capito che avevo trattato positivamente l’opera di Nietzsche. Fu un episodio che lo fece infuriare».
Al punto da accusarla di essere un teorico dell’eugenetica. «Assolutamente ridicola quell’accusa che nasceva dalle mie considerazioni sul “parco umano”. La critica in realtà non era che il sintomo di uno stato d’animo pregresso. Certo, non faccio fatica a riconoscere che la sua “teoria dell’agire comunicativo” è stata all’epoca una grande trovata, anche se purtroppo noiosa come una tardiva tesi di abilitazione».
Sia Adorno che Habermas hanno criticato la figura di Heidegger. Lei ha cercato di salvarlo. Perché? «Heidegger è da sempre un autore controverso e continuerà ad esserlo. Non è un mio capriccio privato considerarlo uno dei grandi della storia del pensiero. Oltretutto, è di gran lunga il più commentato tra i filosofi del XX secolo. Il che può perfino essere pericoloso per la salute».
In che senso? «Richard Rorty disse che era stato colpito della stessa malattia che aveva ucciso Jacques Derrida, un cancro incurabile al pancreas. Poi, sarcasticamente aggiunse che sua figlia aveva ipotizzato che quel tipo di tumore derivasse da un eccesso di letture heideggeriane». Ha parlato di una “politica di Heidegger”. Cosa intende? «Ne ho parlato pensando di aver trovato la ragione della temporanea adesione al nazionalsocialismo nella sua teoria della “Storia”. Heidegger compie una diagnosi di prim’ordine dell’epoca che sta vivendo. È convinto che gli individui siano finiti fuori da qualsiasi storia dotata di senso. La noia e l’inautenticità sono le componenti che dominano il comportamento dell’individuo. È per uscire da questa situazione emotiva che Heidegger è disposto a pagare il prezzo dell’assoggettamento a un dubbioso movimento ipernazionalista e al suo isterico Führer».
Un prezzo decisamente troppo alto, non trova? «Per noi che possiamo oggi avvalerci di uno sguardo retrospettivo la faccenda si presenta abbastanza chiara. Heidegger si è perso nella nebbia degli eventi. Ma ciò che soprattutto colpisce è la totale mancanza di gusto di quest’uomo. La vediamo crudamente esibita nei suo Quaderni neri. Mi pare di poter dire che in alcuni casi la filosofia è un training autogeno dell’eccentricità».
In fondo, tutto il suo lavoro è una degna prosecuzione di questa idea di eccentricità.
«In che senso lo pensa?».
Il capolavoro di Heidegger è certamente “Essere e Tempo”, su quel solco la sua trilogia “Sfere” si sarebbe potuta intitolare “Essere e Spazio”.
«Mi sembra un’ipotesi interessante, “Essere e spazio” come una sorta di titolo nascosto della trilogia. Si tratterebbe comunque di una parodia. In effetti, Essere e tempo inizia come se dovesse risolversi in “Essere e spazio”. Heidegger si interroga con incredibile insistenza sul significato della preposizione “in”. Dopotutto, l’uomo è quell’animale che crea e abita uno spazio. E abitare significa sempre costruire “sfere”».
Come le è venuta l’idea di usare l’immagine della sfera? «Nel 1990 tenni all’Accademia delle arti figurative di Vienna un corso di teoria estetica, rivolto a giovani studenti austriaci del tutto digiuni dell’argomento. Ricordo che per agevolarli avevo fatto ricorso a delle immagini. Soprattutto a quella del cerchio. Oltretutto, in quel periodo ero fresco di lettura del bel libro di Georges Poulet Le Metamorfosi del cerchio. Le mie “Sfere” potrei anche definirle le “Metamorfosi della palla”!».
La sua filosofia sembra un po’ un palleggio continuo, un gioco di abilità. Pura acrobazia.
«C’è molto di acrobatico e di atletico nella filosofia».
Il significato che lei attribuisce alla sfera è quello immunologico, cioè uno spazio rifugio che abbia una funzione protettiva per l’uomo.
«Si comincia con le sfere più intime – l’utero materno per esempio – per passare alle sfere-mondo delle metafisiche imperiali per finire con le sfere pluralistiche del mondo moderno. Come vede non è un semplice capriccio se la mia opera sulle sfere sia diventata una trilogia».
Ogni volume porta un’indicazione precisa: “Bolle” il primo; “Globi” il secondo; infine “Schiuma” il terzo. Perché ha sentito la necessità di utilizzare delle immagini ulteriori? «Si tratta del tentativo di raccontare la storia umana, in particolare quella occidentale, attraverso una serie di crisi che investono il format della sfera. “Bolle” è un’archeologia dell’intimità; “Globi” è il passaggio a una intimità che perde il suo carattere individuale: le grandi conquiste europee viste come il tentativo di esportare la nozione di intimo occidentale; infine la “schiuma”, cioè la perdita di quell’intimità cui l’Occidente aveva creduto e realizzato come comfort e lusso, ovunque andiamo ci viene incontro l’estraneo». Al centro di tutto questo c’è il concetto di globalizzazione che lei declina, mi pare, in modo diverso rispetto all’uso contemporaneo che ne viene fatto.
«La globalizzazione è un processo, non un semplice risultato.
Essa prende avvio dai concetti dell’antica cosmologia filosofica.
Ma quando la terra ha rivelato la sua sfericità ha smesso di essere bella ed è diventata interessante. Poi, intorno al diciassettesimo secolo, ha inizio la globalizzazione nautica: conquiste e scoperte oceaniche, trasporto con navi e capitale galleggiante. Quando entriamo nel ventesimo secolo si assiste a due ulteriori globalizzazioni: attraverso i viaggi aerei e la comunicazione elettronica».
Intende dire la conquista dello spazio e Internet? «Esattamente e scopriamo che in tutte queste fasi si realizza un intreccio costante tra sviluppo tecnico e momento psicologico-antropologico. Lo “spirito libero” è all’inizio un cosmopolita logico, diciamo pure un filosofo dell’antichità; poi un cosmopolita nautico, cioè un viaggiatore che attraversa gli oceani; in seguito un cosmopolita aeronautico che vola nei cieli e infine un cosmopolita elettronico, che usa la Rete per i suoi viaggi. E magari fa sosta in un web-café».
Questa distribuzione di figure, quasi un’antropologia dei caratteri occidentali, in che misura tiene conto del tratto distruttivo che ha sempre caratterizzato il ventesimo secolo? «Direi che non può prescinderne. Il volto di Medusa del Novecento ha un duplice carattere, frutto di due immani tragedie senza precedenti: le guerre mondiali e i genocidi, sia interni che esterni. Ma quel secolo, come il nuovo, resta confuso poiché i sopravvissuti continuano imperterriti ad andare avanti e vogliono sapere il meno possibile di ciò che è stato».
Lei parla a questo proposito di “sogno alchemico” come l’avvenimento fondamentale del XX secolo. Sapere sempre meno nel nome del principio dell’opulenza, della ricchezza da conquistare ad ogni costo.
«Può sembrare stravagante che io abbia colto tanta importanza in questo “sogno”. Ma l’alchimia fu inizialmente la scienza che mirava a trovare, o meglio a inventare, la cosiddetta “pietra filosofale”. Con il tempo essa si è trasformata nella pretesa di dominare tecnicamente l’arricchimento, il processo del “diventare ricchi”.
Questo sogno originario della modernità è più antico ed energeticamente più potente del cosiddetto capitalismo».
Quel capitalismo fin dalle origini ha oscillato tra i fuochi d’artificio e l’ascesi. Dove lo collocherebbe oggi? «Si tratterebbe di scegliere tra due eccessi. Ma nella vita pratica gli estremismi non funzionano mai a lungo. Alla fine si impongono le vie di mezzo. O come dicevano i nostri antenati latini: l’ aurea mediocritas. Tradotto per noi significa attenzione all’ecosistema, sviluppo di un’etica co-immunitaria e una sincera diffidenza verso tutte le atroci semplificazioni».
Il suo modo di ragionare oltre alla filosofia esplora le possibilità della letteratura.
«Posso dirle che è così».
Ho come l’impressione che nel suo “parco letterario” due figure spicchino: Dostoevskij e Melville. È così? «Dostoevskij è presente nel mio lavoro come l’autore che, dopo Kierkegaard, ha fuso nel modo più impressionante la filosofia con la prosa letteraria. E Melville è nostro contemporaneo in quanto autore, dopo Dante, del libro sommo, della più grande avventura romanzesca. Egli ha creato la più efficace metafora del modus vivendi moderno: la caccia alla balena. Lo si voglia o no, tutti noi ci troviamo a bordo di una baleniera. E, grazie a Dio, i membri dell’equipaggio non sono tutti così ossessionati come il loro capitano».
ritratto di Riccardo Mannelli Note di vita. La passione per la filosofia di Peter Sloterdijk inizia sui banchi di scuola, durante il ginnasio, come racconta: “All’età di quindici anni, durante l’ora di religione, tenni davanti alla classe una relazione sulla critica alle prove dell’esistenza di Dio. Colsi una certa meraviglia in chi ascoltava e in me la soddisfazione di aver messo a frutto certi insegnamenti”
Carta d’identità

La biografia Peter Sloterdijk è uno dei più celebri filosofi viventi. Nato a Karlsruhe il 26 giugno del 1947, ha insegnato filosofia ed estetica all’Università della sua città natale, e nel 2001 è diventato rettore dell’ateneo. Dirige dal 2004 l’istituto di Filosofia della cultura all’Akademie der bildenden Künste di Vienna Le tappe La formazione Studia filosofia, germanistica e storia a Monaco, durante il dottorato ad Amburgo si specializza nella filosofia e nella storia dell’autobiografia Il suo primo saggio è Critica della ragion cinica, scritto nel 1983 al di fuori dell’accademia “Sfere” L’opera più ambiziosa è Sfere, trilogia composta da Bolle, Globi e Schiume, pubblicati in Italia da Raffaello Cortina. Qui Sloterdijk elabora una teoria della soggettività che è anche una riflessione sulla società occidentale L’ultimo saggio In Cosa è successo nel XX secolo? (Bollati Boringhieri, pagg. 281, euro 26) il filosofo tedesco mette in discussione etichette, come “l’età dei totalitarismi”, che hanno svuotato il secolo breve della sua complessità.

 

La Repubblica – Antonio Gnoli – 10/09/2017 pg. 54 ed. Nazionale ROBINSON