di Pierluigi Piccini
Lo spostamento della collezione Spannocchi al Santa Maria della Scala lo considero un un grave errore di politica culturale. Grave errore per dove sarà ubicata nel Santa Maria della Scala e perché può essere la parola fine al trasferimento della Pinacoteca nell’Antico Ospedale. Perché così facendo il Santa Maria della Scala diventa sempre più una mescolanza di cose eterogenee senza una vera identità. Nessuno degli amministratori che si sono succeduti dal 2000 ha voluto realizzare l’accordo con l’allora ministro Melandri per il trasferimento della Pinacoteca di Siena. Nessuno degli attuali amministratori ha intrapreso con il Ministero competente una azione decisa finalizzata a realizzare un progetto organico e strategico a questo proposito, nonostante la quantità di opere di proprietà del Comune e della Provincia in deposito alla stessa Pinacoteca. Nessuno degli attuali amministratori ha verificato le disponibilità del ministro Franceschini che pure era stata da questi manifestata. Siena per la sua importanza potrebbe chiedere di staccarsi dal Polo Museale Toscana con sede a Firenze e avere una propria organizzazione museale.
Tesori di una collezione riunita
Il matrimonio che nel settembre 1774 unì Caterina Piccolomini di Modanella e Giuseppe Spannocchi di San Domenico produsse di riflesso la confluenza di due rilevanti collezioni di opere d’arte e preziosi manufatti: quella recata in dote dalla sposa e l’altra, dello sposo, assai inferiore quanto a numero di beni. Da tempo si coltivava l’idea di assemblare i quadri dispersi in varie sedi per ricostruire un insieme che negli anni ha subito mutilazioni e si è arricchito di innesti, per emergere nel 1978 in una stringata antologia di 77 dipinti al piano ricavato dai solai di Palazzo Buonsignori, sede della Pinacoteca nazionale. Finalmente il progetto condotto da Stefano Casciu, responsabile della Direzione regionale musei della Toscana, sulla base di un accordo tra Ministero della cultura con il Comune di Siena risalente al 2017, e in collaborazione con la Provincia, la Soprintendenza e gli altri enti interessati, si è concluso e il prossimo 11 maggio ne sarà presentato l’allestimento, situato al quarto livello del Santa Maria della Scala, il complesso culturale in faccia al Duomo che dovrebbe a breve diventare un autonomo organismo: una Fondazione di partecipazione maggioritariamente pubblica sul modello di istituzioni consimili. Inserita o no nel cosiddetto Terzo Settore? Con quali apporti e con quali sostegni di privati? In attesa dell’approvazione dello Statuto, questo assetto di uno spazio espositivo permanente nell’antico ospedale è un indubbio passo in avanti e c’è da augurasi che indichi la filosofia di fondo da scegliere. Qualcuno si ostina a sperare che l’inaugurazione in calendario possa preludere ad un adeguato trasferimento della Pinacoteca all’interno del meraviglioso labirinto. Altri ritengono che la felice operazione filologica sia l’accantonamento di una risolutiva impresa strategica. Discorso da riprendere! Intanto l’avvenimento merita convinti plausi, privo com’è di improvvisazione pubblicitaria e di caducità commerciale. I titoli di testa sarebbero manchevoli se non si elencassero i nomi dell’équipe tutta al femminile impegnata nella concretizzazione del difficoltoso obiettivo: Cristina Gnoni Mavarelli, Anna Maria Guiducci, Maria Mangiavacchi, Elena Pinzauti,Veronica Randon, Felicia Rotundo e Francesca Scialla. Le 165 opere adunate (137 dalla Pinacoteca, 24 dal Museo civico, 2 dalla Provincia e 2 in deposito dagli Uffizi) ricostruiscono nella sua «sostanziale interezza» ciò che resta ed è fino ad oggi reperibile della collezione, composta da “quadri da stanza”, taluni dei quali ammirati in quella sorta di succoso aperitivo che fu la mostra Una città ideale aperta nel dicembre 2018. L’ordinamento è stato stabilito seguendo i luoghi di provenienza: il ducato di Mantova (con un alto numero di pezzi gonzagheschi) ed il principato vescovile di Trento per la parte piccolominea, lo “Stato nuovo” di Siena per la componente Spannocchi e quindi allineando cronologicamente in sottogruppi autori nordici, italiani e senesi. I visitatori sono invitati ad assaporare un clima storico-politico, a capire propensioni e tendenze, ad immaginare clangore di armi e furia di depredazioni, soppressioni di enti religiosi e fiorire di Accademie e Gallerie. Il sacco di Mantova del 1630 fu un’occasione d’oro per spregiudicati collettori. Fu colà attivissimo e astuto al pari d’un mercante moderno il preposto della cattedrale di Trento, Livino Piccolomini, che di tanto in tanto spediva per via indiretta a Siena «qualche cosetta da poter costì fare un tantino di gallariuccia», come scrisse con simulata modestia a suoi parenti nel settembre 1652. La collezione Spannocchi era già ben avviata. Nel nucleo originario primeggiavano gli stupendi cartoni preparati da Domenico Beccafumi per le tarsie del pavimento del Duomo incentrate su momenti dell’epopea di Mosè, acquistati dal volitivo Tiburzio, ingegnere di fama europea, pittore lui stesso, già nel Cinquecento. Pezzi di enorme formato che non saranno rimossi dalla Pinacoteca. Vasari ne lodò «l’ombre e gli sbattimenti» ottenuti usando la varietà dei marmi come vibranti sfumature di colori. Ed era così consistente la schiera dei curiosi giramondo del Grand Tour che per attenuare la scocciatura dei forestieri ci si decise a installarli all’estremità d’una cappella del palazzo di San Domenico. Il ponderoso catalogo edito da Pacini potrà essere scorso come un romanzo storico in forma di schede. E permetterà di conoscere puntualmente i quadri donati nel 1835, dopo complicate peripezie, alla Comunità civica, gustandone dettagli pur minimi. Folta è la rappresentanza tedesca e nordica. Johann König propone Il ratto d’Europa in una versione che assegna il primo piano al corteggiamento del compiaciuto toro che si accinge a rapire la bella fanciulla, e la travolgente fuga s’intravede giocosa in lontananza. Tutto l’opposto dei modi con cui il mitico avvenimento è trattato dal Padovanino (AlessandroVarotari). È assegnata alla bottega di Lucas Cranach un’elegante e malinconica Lucrezia nell’atto di suicidarsi per l’insopportabile vergogna dello stupro subito. Il martirio di San Floriano è evocato da due olî di Albrecht Altdorfer, in deposito dagli Uffizi, dove emigrarono nel 1913 a seguito di uno sprovveduto scambio con una tavola del quattrocentesco Pietro di Francesco Orioli: quasi un risarcimento. Non era troppo benaccetto lo scompaginante vento del Nord. Sfilano tra gli italiani ritratti di Giovan Battista Moroni, una sensuale eburnea Maddalena penitente del fiorentino Francesco Furini, un michelangiolesco Argo di Annibale Carracci o sua cerchia, un ammiccante Pan di Pier Francesco Mola, liberato dai depositi dell’Ateneo. Riconosciuto al senese Marco Pino, attivo a Roma post-1544, è uno scenografico Martirio dei Santi Giovanni e Paolo. Indimenticabile la Natività di Lorenzo Lotto (1526?), restaurata a dovere, con Maria abbagliata dal corpo del bambino, unica fonte di luce nella buia grotta. Il cordone ombelicale non è stato ancora reciso. Tra lei e Giuseppe una delle due levatrici accorse, Salomè, che – tramanda l’Apocrifo Pseudo-Matteo – pentita dopo aver manifestato incredulità all’annuncio di un parto verginale, riacquistò miracolosamente l’uso della mano seccata per punizione: «essa subito si accostò al bambino e adorandolo toccò le frange dei pannolini in cui il bimbo era involto e immediatamente la sua mano fu risanata». Il prodigio è immerso in un’umile quotidianità domestica: si scorgono appesi alla parete gli strumenti da falegname, baluginano i bacili, la brocca, i caldi panni di lino impiegati. Basterebbe questo piccolo presepe per intraprendere uno spaesante viaggio nella raccolta ritrovata.
Roberto Barzanti