Che ci sia l’urgente necessità di ripensare le molteplici forme che il turismo ha assunto da quando è nato come industria del viaggiare a comando nessuna persona dotata di buonsenso lo nega. Tanto più dopo l’uragano della pandemia. Spesso si ascoltano accalorate invettive contro i grandi numeri. Il nemico da battere sarebbe il turismo di massa e il traguardo da raggiungere il ritorno verso misure compatibili con i luoghi oggetto di un programmato interesse. Il pericolo che si annida in deprecazioni di questo tipo fu già individuato da Hans Magnus Enzensberger in un breve saggio del 1962 diventato un classico della materia: «la sedicente critica del turismo – scrisse – si dimostra per quello che è: reazione. Anzitutto, reazione sociale: queste voci si levano a difesa di un privilegio minacciato di annientamento». Tra i tanti diritti che si son venuti affermando va incluso quello al turismo o meglio al viaggiare liberamente. E i colpi che questa conquistata libertà sta prendendo nell’infausta fase della dilagante pandemia da covid-19 sono fonte di crescente preoccupazione.
Oltre al versante politico dal quale analizzare i cambiamenti – taluni forse irreversibili – di un fenomeno che si articola in turismi, cioè in ricette e strutturazioni varie e non uniformabili, emerge un’indicazione imperativa di correzioni che possono esser d’aiuto nel reimpostare non superficialmente la presa di un’inquietante fenomenologia. Con essa occorre confrontarsi. Se è vero che «la fiumana turistica – sempre Enzensberger – è una sola grande corrente di fuga dalla realtà che la società sfrutta per riorganizzarci», considerare senza prevenzioni quanto accade è indispensabile, perché tocca aspetti essenziali degli odierni costumi. Il fuggire dalla prigionia della realtà quotidiana è già manifestazione di un disagio: la libertà che il turismo promette si risolve non raramente in inganno. Perché lungo la fuga si ha a che fare, in latra chiave, con ostacoli e deformazioni dell’agenda di tutti i giorni, con un’organizzazione dello svago terribilmente simile alle inevitabili consuetudini.
Il revival romanticheggiante dei piccoli borghi o l’esaltazione di cammini lontani dalle congestionate aree urbane sono le innovazioni che stanno riscuotendo un più entusiastico ascolto. È sacrosanto, infatti, l’invito a scoprire opere d’arte dimenticate o frammenti di una negletta storicità. La tendenza vuol ridare curiosità di viaggio al turismo standardizzato. L’impresa non è a portata di … piede. E neppure di occhio. Esige una riorganizzazione radicale dell’economia di un settore che non può essere separato dalla ricadute e dalle implicazioni che lo alimentano. Per vedere e capire un dipinto custodito in un’antica pieve o ripescare una Madonna confinata in una chiesuola di campagna occorre possedere una cultura di base oggi marginalizzata e munirsi di testi chiari e istruttivi. I criteri ispiratori del volumetto “Perdersi in Toscana Luoghi opere persone ” (Maschietto, Firenze 2020) di Tomaso Montanari esemplificano bene gli stimoli da seguire per imboccare nuove strade. Basterà sfogliare alcune pagine per rendersene conto. Quanti hanno ammirato il grande Cristo morto di Francesco di Giorgio che a Siena se ne stava sepolto più che esposto sotto la mensa del quinto altare della navata sinistra della basilica dei Servi? Grazie agli studi del brillante Gianluca Amato e all’intraprendenza della sezione senese del FAI è resuscitato: simbolo di una ripresa che può svilupparsi se si sostiene la ricerca e si punta su una gestione dei beni culturali improntata a rigore scientifico e a mirati restauri. Quanto più importanti e strategici delle mostre peregrinanti e raffazzonate con logiche banalmente commerciali, comprate chiavi in mano per accontentare esercizi commerciali e doglianze degli albergatori. Ad Asciano, nel museo di palazzo Corboli, ecco un’Adorazione dei pastori di Pietro Giovanni d’Ambrogio, che echeggia il Sassetta ed emana una fiabesca aria d’Oriente. Siena possiede un sistema di oltre 40 musei disseminati per la provincia, ed è una rete che dovrebbe avere nuovo slancio: mentre il Comune capoluogo la snobba per inseguire alleanze clamorose fuori misura. A Torrita, ancora nel senese, nella Chiesa delle sante Flora e Lucilla ci s’imbatte in una marmorea lunetta di Donatello – chi l’avrebbe immaginato? – che raffigura una Resurrezione tempestosa di gloria. Talvolta per scegliere un mèta sarebbe sufficiente sapere che il visitatore avrà in premio un’apparizione miracolosa di questo eccelso tenore. E Pienza? «Lotta – scrive Montanari – per non morire di bellezza» e per incentivare un turismo che sia liberazione e non costrizione. Chi ha scelto di recarsi al castello di Montegufoni, a Montespertoli, dove durante la guerra ebbero rifugio un sacco di opere degli Uffizi? Una fotografia del 25 aprile 1937 tramanda la sosta felice di Piero Calamandrei, Paolo Treves, Luigi Russo, Pietro Pancrazi, Nello Rosselli? Le ombre dei protagonisti di una storia civile da onorare fanno compagnia allo splendore di capolavori alloggiati in luoghi memorabili. Il recupero del ritmo del viaggio personale intreccia traiettorie impropriamente ritenute autonome. E il paesaggio si anima di voci e richiami che gli dànno la parola. Nel viale dei cipressi ammalati di Bolgheri , come sotto i pini di D’Annunzio alla Versiliana di Forte dei Marmi, si avverte che «é impossibile tracciare un linea netta che separi la storia dalla natura». Nella pieve di san Bartolomeo a Cutigliano, davanti alla secentesca Circoncisione firmata da Giovanni da San Giovanni, risuona l’ambiguo giudizio dell’antipatico Niccolò Tommaseo: «Chi vuol ritrarre Madonne, vada sulla montagna di Pistoia: il brutto stesso qui ha un so che di angelico». A Monte Oliveto, angolazione ideale per osservare Firenze, vien da declamare tra sé e sé i versi di un colà (1907) convalescente Umberto Saba: «Monte Oliveto. Tra il grano e le molli / erbe lor fusti celano gli olivi, / che nei meriggi estivi / azzurreggiano in tutti gli altri colli». Si sa quanto Montanari colleghi pagine del suo mestiere di storico dell’arte con temi politico-civili, non disdegnando provocatorie forzature e sorprendenti attualizzazioni. Le stazioni del suo itinerario rispecchiano questa vis, che del resto appartenne alla lezione di maestri non archiviati. Chi sfodererebbe la disinvoltura dell’ardimentoso Montanari nel presentare Gian Lorenzo Bernini “eretico” e non semplicemente “eccentrico” (secondo il verdetto di Giuliano Briganti)?
La nomina a Presidente della Fondazione Museo Archivio Richard Ginori – sono state lanciate assurde critiche – darà a Montanari l’occasione di mettere in pratica una filosofia dotata di una ferrea coerenza e di verificarne sperimentalmente plausibilità e benefici. Anche se la promessa gridata d’acchito («La fabbrica della bellezza ritroverà il suo popolo» ) puzza di un populismo grossolano non adeguata alla buona causa.
Questi appunti son partiti dalla speranza che il turismo ritrovi almeno in certe modalità il gusto del viaggio. Non c’è contraddizione tra una linea che unisca, rifiutando bieche interferenze economiche, percorsi di un nuova mobilità e amore di un’estetica fuori canone. Il decalogo che Montanari ha proposto per cambiare – non dico riformare: s’infurierebbe – la gestione del patrimonio culturale non ha certo il turismo quale fine, ma nuove o poco praticate forme di turismo saranno conseguenze di una nuova visione dei beni comuni da tutelare e da capire. «Ogni istituto culturale – si legge al punto 4 del decalogo statalista all’estremo – deve mettersi al servizio della comunità cui appartiene: per essere globali, occorre essere pienamente locali. Il crollo del turismo internazionale deve aprirci gli occhi: le nostre città d’arte ormai deserte ci ricordano che siamo diventati gestori di un patrimonio che non frequentiamo e non conosciamo più. Facciamo, letteralmente, di necessità virtù e riapriamo davvero il patrimonio ai cittadini». Il nodo d’intersezione su cui già si lavora richiede comprensivi dialoghi e feconde intese.
Roberto Barzanti