Valentina Valentini
Porre la questione dello spettatore oggi significa prima di tutto chiedersi in che misura la richiesta insistente di una partecipazione (inter)attiva dello spettatore sia un segnale del deficit di vita democratica che si riscontra a tutti i livelli del sociale. Significa chiedersi in che misura le pratiche di partecipazione “attiva” dello spettatore rappresentino delle compensazioni momentanee a questo deficit, tali da trasformare lo spazio della fruizione artistica in uno spazio per il gioco sociale le cui dinamiche sono eterodirette. Al mediato, al contemplativo, alla rappresentazione, all’opera vengono contrapposte la dimensione performativa, l’immediatezza del web. Si tratta allora di capire di quali strumenti di analisi disponiamo per comprendere i ruoli che l’arte e il teatro di oggi assegnano allo spettatore, ovvero individuare le figure spettatoriali inscritte nella produzione artistica contemporanea. Come mi ha scritto Francesco Fiorentino, la domanda da farsi è: «come si può pensare una partecipazione dello spettatore che non sia né consumo di uno spettacolo né attivismo eterodiretto, cioè che non sia né eteronoma, né consumistica? La partecipazione riguarda anche il livello mentale, immaginario, cognitivo… è a quel livello che avvengono l’incontro e lo scontro tra la società che portiamo dentro di noi (in forma di attese, abitudini, metri di giudizio ecc.) e l’arte a cui lo spettacolo (in quanto lavoro dell’artista) ci espone. Ci sarebbe anche da riflettere su come si può pensare la dimensione comunitaria dell’essere spettatore».
Riprendo dal saggio di Hans Robert Jauss Estetica della ricezione (1988) una premessa fondamentale: lo spettatore è un oggetto storico. Ogni testo è un atto storico con il quale lo spettatore interagisce in base alle sue esigenze e alle sue competenze. Bisogna considerare la dualità del soggetto-spettatore (ricezione) e del soggetto-autore (produzione), perché soggetto che osserva e oggetto osservato stanno in rapporto dialettico.
Negli anni Settanta, concepire l’opera come meccanismo di inclusione dello spettatore aveva un intento rigenerante la prassi fruitiva. Lo spettatore era chiamato dall’autore a eseguire azioni – nel ruolo di performer – guidate da istruzioni verbali prescrittive. Tali costrizioni miravano a una rieducazione percettiva a base di tecniche come l’ottundimento, la reiterazione, l’autoriflessività. Il dispositivo dell’iterazione, in particolare, richiedeva allo spettatore un’attenzione non agli eventi della fabula, ma ai micro-eventi dell’intreccio, con l’intento di svuotare il racconto di senso e restituirlo alla sua essenza di atto narrativo. Tali procedimenti hanno modellizzato uno spettatore superattivo psichicamente e, nel contempo, abbandonato a flussi percettivi in uno stato semicosciente.
Un’altra strategia che esaltava e minimizzava il lavoro dello spettatore è stato il dispositivo della spazializzazione del tempo mediante iterazione e decelerazione del movimento che presiede la composizione degli spettacoli dei primi anni Settanta di Robert Wilson. La loro durata fuori standard (12 ore, 24 ore, o addirittura 7 giorni e 7 notti), inoltre, concedeva allo spettatore la libertà di distrarsi, di abbandonare la coscienza vigile, ma gli chiedeva anche di assumersi la responsabilità di farsi strada nei molteplici sentieri che lo spettacolo intrecciava. Questo nuovo spettatore, disorientato da un flusso plastico-visuale-sonoro, dalla stratificazione di quadri in simultanea, ha accesso – come scriveva Franco Quadri – a «una possibilità pluralistica di opzioni, di combinazione o di interpretazione delle diverse immagini». L’intento era «la riproduzione della molteplicità del pensiero, con la sua velocità di associazione e dissociazione».
Anche la struttura labirintica dei film di David Lynch pone allo spettatore il problema di trovare il filo che lo porterà fuori, ovvero un modo per tenere insieme le storie che vengono avviate e abbandonate a un certo punto per iniziarne altre. Come in ogni labirinto, allo spettatore viene chiesto di perdersi, di cedere alle tante suggestioni di storie, al fluire delle immagini. Tale procedimento costruttivo – basato sulle figure della disseminazione, moltiplicazione, ripetizione – prevede uno spettatore che non chiede compimenti, suture, nodi che si allacciano per sciogliersi, uno spettatore che cede alla seduzione del flusso audiovisuale, ma senza smettere di essere un soggetto pensante che si chiede se possa esistere non tanto una via per uscire dal labirinto, quanto qualcosa che tenga insieme i diversi percorsi.
La scena teatrale che usa dispositivi tecnologici offre allo spettatore una fruizione immersiva, con proprietà tattili: da Voyage au boit de la nuit (1999) a B. #03 Berlin (2003), terzo episodio della Tragedia Endogonidia, gli spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio funzionano come organismi tellurici: luci pulsanti, proiezioni di lettere in morphing velocissimo, suoni assordanti. L’intento è di toccare la “voce nascosta del corpo dello spettatore”, di penetrare nel suo corpo con gli strumenti chirurgici offerti dai nuovi dispositivi che destabilizzano la sua intoccabilità.
Negli anni Novanta la relazione con il sociale segna un ribaltamento radicale rispetto al ventennio precedente, perché è il curatore, l’artista che occupa un territorio esterno al suo studio, territorio dal quale preleva idee, materiali, documenti che seleziona e trasforma o che mostra nella loro autenticità di reperto etnografico, come ha scritto Hal Foster. In Il ritorno del reale, Foster ha analizzato il Project Unité a Firmin (1993), una mostra che si situa in un edificio progettato da Le Corbusier, vicino a Saint Étienne, lontano dal centro, un edificio abitato da immigrati, anziani, pensionati, studenti, ragazze madri. Gli artisti (fra cui architetti e designer) occupano 40 appartamenti vuoti utilizzandoli come gallerie per una esposizione personale in situ: Individual Comfort, di Christian Philipp Müller prepara ed espone su cornici dorate un rapporto sulle condizioni acustiche dell’edificio; Clegg & Guttman costruiscono un mobile sul modello dell’edificio e vi inseriscono le raccolte dei brani musicali che gli abitanti, su richiesta degli artisti, avevano preparato e donato: Firminy Music Library. Foster critica questi interventi site specific chiamati a risuscitare il locale e il quotidiano in versione disneyana, ovvero – in fin dei conti – a rivalutare luoghi dismessi a fini di mercato. Sulla stessa scia si pone Richard Maxwell, regista del New York City Players, che nel 2010 con Ads (abbreviazione di advertisement) ha realizzato un ciclo di installazioni teatrali in diverse città del mondo coinvolgendo decine di cittadini chiamati a rispondere pubblicamente a domande come: «In che cosa credo?» e «Cosa è più importante per me?», insomma a formulare il proprio advertisement inteso come professione di fede nella vita. Si ritiene che privilegiare gli interventi estemporanei delle persone comuni, anziché i testi letterari, aumenti il quoziente di presa sulla realtà dello spettacolo e il quoziente di partecipazione dello spettatore. In reazione all’anestetizzazione mediatica, la mediatizzazione del vissuto individuale e collettivo chiama alla condivisione e al fare.
Una modalità spettatoriale invalsa nell’estetica di fine XX secolo è quella interattiva, che affida il compito di far esistere l’opera allo spettatore, conducendolo in una dimensione ludica e collettiva, come avviene con installazioni multimediali interattive dove le funzioni spettatoriali cedono di fronte a quelle performative: allo spettatore si richiede di eseguire il compito previsto per lui, affinché l’opera possa dispiegare le sue potenzialità e manifestarsi. Lo sguardo è messo di fronte a una dimensione evenemenziale, discontinua, in cui non c’è totalità né oggettualità, né permanenza. In Tavoli (Perché queste mani mi toccano), realizzato da Studio Azzurro nel 1995, la ciotola, la fiamma, il corpo si scuotono dallo stato di riposo in cui versavano e balzano nello spazio ogni volta che un visitatore cerca di afferrarli, rompendo il tabù secondo cui l’opera d’arte va guardata a rispettosa distanza, per privilegiare, al contrario, la dimensione ludica, magica e sensoriale. «Al fruitore menomato e imprigionato nell’occhio», ha scritto Federico Luisetti «è restituito un corpo – libidinale e sociale – e con esso la possibilità di indignarsi, di toccare, di desiderare e demistificare gli oggetti» (F. Luisetti, “Il dentro, il fuori, il “parergon”, in Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, a cura di Antonio Somaini).
La domanda da porsi è allora quali procedure operano desautorando e quali magnificando lo spettatore. Lo si magnifica attribuendogli la responsabilità di ricomporre l’opera. Lo si desautora quando si mette in scena un rituale ma non si trasforma il suo ruolo, oppure quando lo si trasforma in performer, quando si interrompe la relazione fra platea e scena, e si rende quest’ultima autosufficiente, proteggendola dallo sguardo spettatoriale mediante un diaframma che elimina il dialogo con l’altro da sé (l’antagonista, il mondo, lo spettatore). Un’autosufficienza che è dovuta alla predominanza, nella scena teatrale, del dispositivo della visualità che modellizza lo spazio scenico come un’installazione, con attanti che hanno il ruolo di figure plastiche piuttosto che di dramatis personae.
La dinamica fra spettatore ed evento scenico corre dunque fra una separatezza e neutralizzazione dell’interazione e una tendenza a includere lo spettatore all’interno, ad attirarlo, renderlo complice di quanto accade, perfino a incorporarlo, a farlo coincidere con l’actor stesso, a istituire lo sguardo spettatoriale all’interno della scena stessa. Fra Novecento e nuovo secolo, la questione dello spettatore teatrale va letta all’interno del generale processo di depersonalizzazione delle pratiche artistiche che si declina sia come reversibilità fra autore (attore) e spettatore, sia come inclusione nell’opera di materiali grezzi, non lavorati, casuali che comporta una riduzione delle operazioni di simbolizzazione e interpretazione. Da una parte si attribuisce allo spettatore la responsabilità di dare senso e coerenza a un’opera che è dispersa, smembrata, non più “quadro”; dall’altra gli si chiede un’immersione sinestetica e sensoriale nello spettacolo.
Come si ripercuote nel soggetto spettatoriale questa opposizione fra tattile e ottico, fra esclusione e inclusione, distanza e flusso sensoriale, fra esaltazione e riduzione del suo ruolo?