L’intervista
Paolucci: grazie al virus tutti hanno capito gli errori fatti, ma forse è tardi. Snaturare il centro ha fatto ricchi tanti, sicuri che vogliano tornare indietro?
A marzo del 1999 l’allora soprintendente del Polo Museale Fiorentino, Antonio Paolucci, pronosticava un «assalto a Firenze» da parte del turismo di massa. Un’invasione. Con la conseguente perdita dell’identità della città. In un’intervista assai profetica a Leonardo Tozzi su Firenze Spettacolo elencava tutto quello che poi puntualmente sarebbe successo. E che oggi la crisi internazionale scatenata dalla pandemia di coronavirus ha messo ancora più a nudo. Ventuno anni fa proponeva anche un piano per evitare tutto ciò. Oggi invece dice: «La pandemia è stata una straordinaria rivelazione: ha messo in evidenza tutti gli errori che la classe dirigente fiorentina ha compiuto negli ultimi anni. Anzi, decenni. Ma il rischio è che sia troppo tardi per tornare indietro».
Professor Paolucci, a quali errori si riferisce?
«Quelli che hanno portato a costruire una Firenze fondata sul turismo dei grandi numeri e sul consumo della città, con la consapevolezza e la partecipazione di tutte le categorie sociali e delle élite politiche. Ora, grazie al virus, tutti hanno capito quanto fosse sbagliato tutto ciò. E quali rovine e quante macerie abbiano lasciato dietro di loro certe scelte».
Lei è stato alla guida del Polo Museale fiorentino e poi ministro dei Beni Culturali quando il centro storico della città non era ancora ridotto così. Quale pensa sia la strada più virtuosa da percorrere adesso?
«A mio modo di vedere il processo è irreversibile, non si torna più indietro nonostante le buone intenzioni del nostro sindaco. I cocci sono rotti e dagli errori fatti, come allontanare dal centro le attività industriali, l’Università, gli uffici, come si fa a tornare indietro? Vedo uno scenario di sostanziale irreversibilità. Mi pare che il destino di Firenze sia segnato».
Domenica il cardinale Betori ha puntato l’attenzione sul problema della rendita e dell’identità di Firenze da recuperare. L’arcivescovo una strada per provare a venire fuori da questo pantano l’ha indicata…
«Appena l’emergenza sanitaria passerà e le cose torneranno come prima, o simili, la gente dimenticherà facilmente sia gli errori fatti che le conseguenze patite. Una delle cose più stolte che ho sentito dire in questo periodo è che dopo il Covid le persone torneranno “diverse” e “migliori”. Mi fa abbastanza sorridere. Dopo tutte le tragedie che l’umanità ha conosciuto, le epidemie, le guerre, i disastri, se avesse davvero dovuto migliorare ora saremmo un popolo di angeli, buonissimi e bravissimi. Non è vero che i disastri ci lasciano migliori».
Totalmente pessimista, fino in fondo.
«Quando sento le parole “rinascita” o “nuovo umanesimo”… non ci credo e basta».
Ma secondo lei il tema della riscoperta dell’identità di Firenze, lanciato dall’arcivescovo, non è una strada da percorrere?
«L’identità di una città è sempre plurale: è fatta dai residenti, dalle attività economiche, dagli intellettuali, dagli industriali. La Firenze che ho conosciuto da giovane io era una città plurale, dove gli artisti convivevano con i metalmeccanici e gli artigiani. È una Firenze che c’era stata consegnata dai secoli precedenti. Non poi tanto dissimile da quella del Trecento, fino alla metà del secolo scorso. Poi è avvenuta una mutazione globale che ha fatto felici tutti, ha reso ricchi tutti, ma ha snaturato la città».
Faccia finta per un attimo di non essere così pessimista. E ripartiamo dal tema del lavoro: riportando le attività produttive in centro si potrebbe cambiare la sua faccia, almeno in parte. Quali sono le realtà che sarebbe più urgente recuperare?
«Le case editrici, le tipografie, l’artigianato di qualità, l’attività finanziaria. La ricchezza di Firenze ha sempre dipeso dall’intermediazione bancaria e dalla circolazione del denaro. Ma cosa è rimasto di quella Firenze oggi?».
E tra i servizi, quali pensa siano i più importanti da riportare dentro le mura?
«Quelli che servirebbero ai residenti. Ma per riuscirci occorrerebbe smantellare un intero sistema di pensiero che è stato imperante fino ad oggi. Siamo sicuri che tutti quelli che finora hanno guadagnato da quel sistema sarebbero disponibili a tornare indietro? Ho i miei dubbi».
Un altro tema sollevato con decisione da Betori è quello della solidarietà.
«Quella per fortuna c’è sempre stata. Firenze è la città caritatevole di Sant’Antonino e dei buonomini di San Martino, la città dello Spedale degli Innocenti. Nella storia la nostra città ha fatto della solidarietà la sua stella polare. E credo non sia venuto meno quello spirito dei fiorentini».
Dopo la crisi da Covid i conti languono, non solo quelli pubblici. Lei è favorevole a introdurre il biglietto d’ingresso nelle chiese?
«Mai stato favorevole. Sarebbe una carezza a quell’idea di commercializzazione e turisticizzazione della città che ho sempre deplorato».