di Giorgio Vasta pubblicato giovedì, 3 agosto 2017 · 4 Commenti
Dal nostro archivio, un pezzo di Giorgio Vasta apparso su minima&moralia il 12 dicembre 2009. (Immagine)
***
Se dovessi scegliere un verbo per descrivere quello che la pelle fa sempre, da sempre, sceglierei il verbo accadere. La pelle accade. Questo suo elementare superficialissimo abissale accadere è intrinsecamente un trauma con il quale ognuno di noi cerca di convivere. La pelle è un trauma perché nel confinare subito oltre la propria pellicola tutto il resto del mondo è anche l’organo dello sconfinamento, lo strumento attraverso il quale imploriamo il mondo di invaderci. Dunque, in quanto strutturalmente lamina che distingue e separa, crinale tra il nostro organismo e tutto ciò che nostro organismo non è, la pelle è crisi, è critica sensoriale, è scudo e preghiera, una membrana sulla quale concentriamo percezione conoscenza e affettività.
La pelle, poi, è la mia biografia.
Quando mi annuso l’incavo del braccio ascolto con il naso il racconto della mia storia, una storia agrammaticale, molecolare, dunque perfettamente autentica e inattingibile (solo trasformando la percezione in linguaggio potrò decidere cosa ho annusato e comincerò, con le parole, a condividere).
La pelle del palmo di mio padre – quando mi pettinava tenendomi fermo il mento e lavorando di balistica, gomito in alto e spazzola tra le dita per dare forma all’informe – sapeva di mattone roso.
La pelle delle braccia di mia madre si è screpolata per l’acqua e i detersivi in anni di lavaggi in bacinelle di plastica; ancora oggi è una pelle a cretti fino all’attaccatura dell’avambraccio, sembrano arti di una madre di terracotta.
La pelle delle orecchie di mio fratello è sottile e trasparente, è possibile vederne il tessuto cellulare scomporsi e ricombinarsi vitale in filigrana; quando penso a lui il pensiero è sempre controluce, attraversato dal sole – e il suo modo di ascoltare è luminoso.
La pelle di Marta, la figlia della mia amica Chiara, è prodigiosa perché è pacificamente in guerra. Marta ha dieci mesi e le ginocchia indistruttibili, due ispessimenti comunque morbidi a proteggerla durante il gattonamento. La pelle intorno al naso è invece leggermente farinosa perché i raffreddori e gli odori, a questa età, sono meteoriti (e perché Marta detesta i fazzoletti).
E poi c’è la pelle degli altri, di tutti gli altri, quando nell’incontrarsi per la prima volta ci si dà la mano. È un rito sociale collaudato, l’articolazione civile del gesto al quale il primate affida il compito di dimostrare che la sua mano è vuota e incolpevole. Una mano nuda, fatta solo di pelle, racconta all’altro la nostra disponibile mitezza.
Quando oggi do la mano a qualcuno che non conosco e nello stesso momento dico il mio nome e l’altro dice il suo, capita spesso che in realtà questo altro nome io non lo senta. C’è una gomma mentale che nel momento del contatto cancella il nome e lascia solo il tatto. Il trauma. Il modo in cui le biografie si mescolano.
Nel piccolo caos percettivo che pur disciplinato dalle forme del sociale si scatena nel saluto manuale, io perdo conoscenza e, per un istante, non registrando il nome dell’altra persona non riconosco neppure il mio ed esisto in quell’interstizio nel quale c’è solo pura sensorialità e nessuna cognizione.
In questo modo, quando la pelle accade, torno al vuoto compatto dell’origine, una specie di felicità senza storia all’interno della quale non so chi sono.