Adesso iniziano a uscire i primi numeri. A saltare il fosso, abbandonando il Pd renziano che ha chiuso ogni canale di comunicazione sulla riforma del Senato («il modello è questo, fondato sulle Regioni e sui sindaci, e non si torna indietro»), potrebbero essere in ottanta. Una trentina a Palazzo Madama, dove a settembre sulla riforma del Senato si consumerà lo scontro finale tra le due anime democratiche; una cinquantina a Montecitorio.
«Attenzione, però», avvertono dalla minoranza del Pd, «ottanta è il numero di coloro che hanno avuto il coraggio di esporsi. Molti hanno preferito rimanere in silenzio. Se il conflitto arrivasse alle estreme conseguenze, quelli che uscirebbero allo scoperto sarebbero molti di più». La rottura tra le due anime del Pd avverrebbe in due fasi. La prima in Parlamento: in Aula, al momento del voto sulla riforma costituzionale. La seconda in una sorta di congresso fondativo di un nuovo soggetto politico, le cui basi sarebbero gettate, a settembre, dalla fusione delle due componenti della minoranza democratica: quella dell’ex capogruppo Roberto Speranza e quella riconducibile a Gianni Cuperlo, lo sfidante di Matteo Renzi alle primarie. Padre nobile, naturalmente, Pier Luigi Bersani. Obiettivo: dare vita ad una «Sinistra riformista» fulcro di un Ulivo 2.0 che punti alla riunificazione a sinistra, recuperando il dialogo con Sel e con le forze sociali – Cgil in testa – entrate in conflitto con il Pd renziano.
Prima, però, la minoranza dem venderà cara la pelle a Palazzo Madama sulla riforma del bicameralismo. Tutto si giocherà sui 513.450 emendamenti, tra cui i 17 dei dissidenti pd che puntano a conservare l’elettività del Senato, che saranno stampati dal 24 agosto. Intanto si moltiplicano i tentativi di mediazione. Maurizio Martina, il ministro delle Politiche agricole portavoce dell’offerta lanciata da Luigi Zanda, capogruppo al Senato, per l’elezione semidiretta dei senatori, non si arrende. «Fuori dalla porta ci sono salti nel buio o passi indietro di cui non possiamo essere corresponsabili. Discutiamo quindi per unirci, non per dividerci», è la supplica del ministro.
Poi c’è il «lodo Onida», dal nome del presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida. Ovvero «una Camera delle autonomie limpidamente ispirata al modello Bundesrat (la Camera alta tedesca, ndr). Come nel programma originario dell’Ulivo», ricorda il prodiano Franco Monaco, per il quale la proposta, «senza chiedere la capitolazione dei due fronti opposti, potrebbe superare i limiti di entrambi» gli schieramenti. Un lodo che finora, però, al pari della mediazione targata Martina-Luigi Pizzetti (vice di Maria Elena Boschi ai Rapporti con il Parlamento), pare destinato all’insuccesso, visto che i senatori della minoranza non si schiodano dalla richiesta di ripristinare l’elettività degli inquilini di Palazzo Madama.
Per Vannino Chiti l’elezione semidiretta dei senatori è «una presa in giro dei cittadini e un obbrobrio». «Renzi non ascolti i cattivi consiglieri e apra al Senato elettivo: ne uscirebbe vincitore», aggiunge il senatore Federico Fornaro, che invita il premier a evitare «inutili e sterili chiusure a riccio». Così il clima resta teso e gli avvertimenti ai possibili scissionisti si susseguono. «Non mandare avanti le riforme costituzionali significa mettere termine a questa legislatura,lo sanno tutti», ribadisce Matteo Ricci, vicepresidente del Pd. Ricci si rivolge direttamente ai colleghi di partito: la vostra, attacca, «è una battaglia assurda». Per tornare all’elettività dei senatori, infatti, bisognerebbe rivedere l’articolo due del disegno di legge, «ma non si può stravolgere il testo e giustamente Renzi su questo punto non arretra perché sarebbe una riforma monca. Vedremo a settembre, al Senato, chi vuole davvero cambiare il Paese e chi, invece, no…». «Non possiamo cambiare l’articolo 2: fare l’elezione diretta dei senatori significa cambiare la riforma», ribadisce Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd. Lorenzo Guerini, il vice operativo di Renzi nel partito, ovviamente concorda: «È possibile apportare ulteriori miglioramenti, purché non si ritorni al punto zero».
Un muro contro muro destinato a sfociare, senza un compromesso, nella conta nell’aula di Palazzo Madama. «Ci sarannno i numeri anche stavolta», scommette Serracchiani. La minoranza ribatte ricordando che il fronte ostile al disegno di legge Boschi può contare su circa 170 senatori. Numeri che i renziani contano di ridimensionare recuperando alla causa governativa gli esponenti della minoranza più dialoganti. «Almeno 12/13 dovrebbero rientrare nei ranghi», assicurano da Palazzo Chigi, dove si preparano alla campagna d’agosto per mettere all’angolo una minoranza di «gufi e frenatori».
di Tommaso Montesano