di Ettore Mo
Ciò che prima di tutto colpisce in questo libro di Alfredo Macchi War Landscapes (Paesaggi di guerra) è l’assenza totale del colore: tutte le foto in bianco e nero, a cominciare dalla copertina che mostra una Kabul in rovina, come la vidi verso la fine del ‘79 quando vi misi piede per la prima volta: poche donne per strada con la borsa della spesa, un bambino che porta a spasso il cane.
Massiccia la presenza dei militari sovietici, più di ventimila uomini, una città fino ad allora vitale e chiassosa paralizzata dal coprifuoco. «Se uno è colto da malore e una donna partorisce — confidava il comandante dei guerriglieri Abdul Haq, amico dei pochi reporter che erano riusciti a intrufolarsi in quella bolgia — non c’è verso di portarli in ospedale. La scelta è tra morire in casa o morire fuori: perché se esci, le pattuglie ti fanno subito secco» .
«Danni collaterali» è il sottotitolo di uno dei capitoli del volume che dall’Afghanistan si estende agli altri sanguinosi conflitti divampati in Medio Oriente, in Libano, nella West Bank e lungo il confine tra Siria e Turchia, che è una zigzagante barriera di filo spinato con tralicci e torri di controllo, piazzati in prossimità dei grossi centri urbani.
Ricordo una mia gita (si fa per dire) in Afghanistan durante la primavera del 1980, l’incontro con Mawli Bismilha, uno dei leader della guerriglia poco più che trentenne che passava come un mostro «dalla mira infallibile, capace di fulminare un passero a trecento metri», e aveva inoltre «un gran fegato e un’allergia acuta per i carri armati sovietici che gli aravano la terra quando non era più tempo di semina… e così quella mattina, appena il T-62 era sbucato sull’argine del fiume Surkh Rod, Mawli non ci ha visto più e ha cominciato a sparargli addosso con il suo Enfield 303». Bravata che gli costò la vita. L’ho visto seppellire nel cimitero del suo villaggio in collina. Ma questa era la Jihad, la guerra santa, e Bismilha uno dei tanti martiri spediti sbrigativamente in cielo, sopra la giogaia dell’Himalaya.
Altro paesaggio di guerra, non meno grande e inquietante, era il Libano dove, dalla fine degli anni Settanta, non trovavi muro o parete senza il volto dell’Imam Khomeini, caposcuola dell’integralismo islamico, che ipnotizzava col suo sguardo feroce: in questo del tutto simile al suo «discepolo» Gulbuddin Hekmatyar, capo dello «Hezb-i-Islami», il più forte dei gruppi islamici che avevano dichiarato guerra al regime laico dei Taraki.
Un ruolo per cui Hekmatyar aveva le carte in regola. Sulla scrivania quando andai a trovarlo nel suo ufficio (anzi, il suo «covo» come lui amava chiamarlo), aveva il Corano e la pistola. Trentenne, laureato in Ingegneria, bell’uomo, allo stesso tempo autoritario e gentile. «Sono stato in prigione sotto il re Zahir — disse, sunteggiando in poche parole la sua storia — e poi sotto Daud, ucciso nel colpo di Stato dell’aprile 1978. So che Taraki ha promesso una bella taglia sulla mia testa, ma non è ancora riuscito a beccarmi. Però mio padre e i miei fratelli, arrestati ai tempi di Daud, sono ancora in carcere. Non li vedo da anni e forse non li vedrò più. La radio di Kabul mi perseguita, cercano l’ingegnere, ma io questa soddisfazione non gliela darò mai. Puoi scommetterci».
Nel dicembre del ’79 ebbi il privilegio di incontrare a Kabul, nell’ex palazzo reale che allora si chiamava the People House (la Casa del Popolo) grazie alla fisionomia politica dei nuovi inquilini, il primo ministro, Hafizullah Amin. Il quale, alla domanda se avesse mai pensato che avrebbe potuto non morire nel suo letto, dato il clima turbolento in cui s’agitava il Paese, rispose col più disarmante dei sorrisi: «Spero di vivere quanto basta per vedere nel mio Afghanistan una società socialista».
Solo qualche mese dopo la mia curiosità di cronista venne appagata da uno «scoop» ancora più importante: un’intervista a quello che sarebbe passato alla Storia come uno dei più audaci e brillanti guerriglieri della Jihad, Zaffarudin Khan, considerato, a soli 23 anni, come l’ufficiale più importante dei Mujaidin nella lotta contro l’esercito afghano e le divisioni sovietiche.
Ma biografi meno clementi non mancano tuttavia di sottolineare aspetti negativi della personalità di Zaffarudin, come la freddezza e la spietatezza, quali emergono da un episodio raccontato da alcuni testimoni: «Quel giorno egli mostrò più fegato del solito. Ventitré ufficiali Khalq (governativi) stanno cenando insieme in una baracca. Lui vi si infila solo, il mitra sotto gli stracci e appena dentro, giù una sventagliata. Crollano tutti come birilli tra piatti di riso e di montone. Nessuno ha avuto il tempo di estrarre una pistola. Fatta la strage, Zaffarudin esce tranquillo del fatto suo, sicuro che l’intera truppa è pronta per la defezione. Così infatti avviene. I duemila governativi lo seguono, passano nelle nostre file dove sono tuttora».
Una svolta nella cultura afghana era certamente uno degli obiettivi di Mosca, che voleva il suo «vicino di casa» allineato anche nel piano ideologico. Al Politecnico di Kabul cento insegnanti erano sovietici contro appena centoquaranta afghani e dopo il «darì» (l’idioma locale) era obbligatorio studiare e parlare il russo.
Infine, Kabul ospitava, nel quartiere di Microrayan, l’esercito civile sovietico (migliaia di ingegneri, medici, geologi, agronomi) che avrebbe dovuto avviare il Paese verso il traguardo del decollo industriale, trascinando l’Afghanistan nel Duemila. Ma al termine del nostro soggiorno, alla fine degli anni Settanta, era parso inevitabile dover concludere che la maggioranza degli afghani non sarebbe stata disposta a tollerare un rapporto di totale sudditanza con l’Urss.