A 15 anni dalla morte della Fallaci il ricordo dell’amico Mazzoni: raro esempio di coerenza. Ma sentì il peso dell’isolamento a cui l’aveva confinata il gotha del politicamente corretto
di Riccardo Mazzoni
Questo mese si intrecciano due anniversari simbolici: venti anni dal crollo delle Torri Gemelle e quindici dalla morte di Oriana Fallaci, che cadono poche settimane dopo la riconquista talebana dell’Afghanistan. L’apocalisse islamica nel cuore pulsante di New York, che Oriana aveva seguito in diretta dalla casa di Manhattan, avrebbe segnato tragicamente i suoi ultimi anni di vita, perché smise di curare il suo cancro — l’Alieno — per dedicarsi anima e corpo a quello, più devastante, che stava corrodendo l’Occidente. La morte di Oriana aprì un vuoto enorme, ma ci resta l’eredità preziosa dei suoi scritti e delle sue battaglie di libertà contro i totalitarismi del secolo breve e del nuovo millennio, minacciato dal fondamentalismo islamico dopo l’illusoria fine della storia con la vittoria delle democrazie liberali sul comunismo. La sua vita è stata un raro esempio di coerenza, e come tutti i grandi pensatori ha avuto contro l’intellighenzia e il potere costituito, ma anche l’affetto sconfinato della gente comune.
Dopo l’11 settembre che stravolse il mondo, da cronista della storia quale era stata nel secondo Novecento, si erse a paladina della civiltà occidentale, l’ultimo bardo laico della cristianità di fronte al risveglio del Califfato, con la missione di risvegliare le coscienze intorpidite dal relativismo e accucciate nella bambagia della libertà. È stata una donna di sinistra, Oriana, quando essere di sinistra significava stare dalla parte dei più deboli, dei disperati del mondo. Per lei, adolescente staffetta partigiana, era l’unica scelta coerente. Ma fu prontissima a comprendere quanta doppiezza si annidava nel comunismo italiano: quando, inviata di guerra in Vietnam, descrisse senza tacere nulla gli orrori del regime filoamericano di Saigon, l’Unità le innalzò un monumento. Ma poi, varcato il confine, raccontò con lo stesso scrupolo per la verità anche gli orrori di Hanoi, e la sinistra la mise al bando in modo brutale. Per lei fu una lezione amarissima, che la rese però ancora più libera. Eppure ebbe molti amici nel Pci: ammirava Berlinguer, la sua aristocratica modestia, il suo profilo che si stagliava sopra la politica politicante, e ricordava con piacere il loro unico incontro a Botteghe Oscure, ma non gli fece mai sconti. Con Pajetta ruppe fragorosamente una sera a cena, in un ristorante di Milano, quando davanti a un risotto gli fece una domanda a bruciapelo: «Se il partito ti ordinasse di uccidermi, tu lo faresti?». «Certo che lo farei». Oriana prese la borsetta e se ne andò; non lo avrebbe mai più rivisto. Era fatta così: mai incline al compromesso, tagliente come una lama nelle sue sentenze inappellabili.
Anche il centrodestra della seconda repubblica non la convinceva affatto: troppo incline ai compromessi, troppo poco convinto nella battaglia per l’Occidente. E quando l’allora Guardasigilli, il leghista Castelli, postò un suo articolo sul sito del ministero, minacciò di denunciarlo se non lo avesse immediatamente tolto.
Nel nostro primo incontro mi aveva chiesto come la pensassi politicamente. Le risposi che rimanevo un craxiano di ferro, anche se Craxi non c’era più. Si oscurò. Col Psi si era scontrata duramente dopo la morte di Panagulis, e tranne forse Pertini, non l’avrebbe perdonata a nessuno: «Craxi è riuscito a fregare anche lei» — rispose, e non ne parlammo più. In generale, la politica e i politici la irritavano. A stento perdonò Ciampi per una frase, pronunciata a Firenze, sui «fallaci inganni». La interpretò come una stilettata contro la proposta di nominarla senatrice a vita. Ma restò piacevolmente sorpresa quando il Quirinale le conferì la medaglia d’oro per la cultura. Lo considerò un atto di coraggio mentre infuriavano le polemiche sulla sua personale guerra all’Islam, e incaricò monsignor Fisichella di ritirarla per lei. Come poi avrebbe designato me a rappresentarla quando il Comune di Milano le conferì l’Ambrogino d’oro.
Oriana amava la solitudine — «mi piace gretagarbeggiare» — ma negli ultimi anni, divorata dal male, sentiva il peso dell’isolamento a cui l’aveva confinata il gotha fasullo del politicamente corretto, nonostante i milioni di copie vendute della Trilogia anti Islam. Ma quando tornava a Casole, nella rossa Greve della casa natale, i suoi occhi stremati tornavano a brillare di una luce quasi infantile. Ogni giorno l’edicolante della piazza centrale le comunicava che i suoi libri, appena usciti, erano andati a ruba. E ne firmava a decine: «Eppure qui sono tutti comunisti!» — esultava. Sì, c’era anche un popolo di sinistra che la pensava come lei sulla minaccia islamica. Oriana amava Firenze di un amore quasi carnale, giudicò il Social Forum un affronto e uno sfregio, e si beava dello spettacolo delle colline del Chianti, declinate in poesia dai dipinti di Simone Martini, rabbrividendo all’idea che sullo sfondo si ergessero una moschea e un minareto: «Li farei saltare in aria».
Abbandonata dal mondo laico imbelle che stava tradendo i valori occidentali, riscoprì la forza liberatrice del Cristianesimo e della Chiesa di Papa Ratzinger, e non fu certo un caso se chiese a monsignor Fisichella — a cui avrebbe affidato il Fondo Fallaci — di tenerle la mano nell’ora della morte, anche se rimase fino all’ultimo «un’atea cristiana». Mi resta l’orgoglio di averla amica, e del privilegio di essere stato l’unico giornalista del mondo ammesso alla sua ultima conferenza, nel consolato italiano di New York, una lucida requisitoria contro l’Islam, «una palude di morte». Chiudo questo ricordo con una frase di Franco Zeffirelli, che la salutò così: «Noi non potremo o dovremo seppellirti nell’oblio, cara Oriana, perché tu avevi visto per prima il pericolo che ci sovrastava e l’avevi urlato con tutta la tua forza a un mondo di sordi, di ciechi, di vigliacchi. Hai tanto lavorato: ora, ti prego, riposa in pace».