l’intervista pietro ichino, senatore Pd.
Promuove il Jobs Act a pieni voti, perché ha portato «in tre anni un milione di lavoratori dipendenti in più, di cui 100.000 in Toscana». Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd con un passato remoto nella Cgil e da parlamentare Pci, passato prossimo nella lista Monti, predicava quasi in solitudine la flexsecurity in stile danese nell’era pre-Renzi del Pd. Oggi guarda alla possibile trattativa tra Democratici e Mdp per un nuovo centrosinistra e avverte: i conti pubblici non possono permettersi le proposte «senza senso» di Mdp su lavoro e pensioni.
Senatore Ichino, il Jobs Act è uno dei terreni su cui Piero Fassino sta tentando di trovare un’intesa fra Pd ed Mdp. La legge più renziana sul tavolo delle trattative con gli anti-renziani: non è un po’ un paradosso?
«Guardi che sul tavolo delle trattative non ci sono né amputazioni, né tanto meno abrogazioni della riforma del 2015: ci sono soltanto gli interventi che questi primi due anni e mezzo di applicazione consigliano, per farla funzionare meglio, tenuto conto pragmaticamente degli effetti che fin qui si sono osservati».
Per esempio?
«Innanzitutto il rafforzamento del capitolo delle politiche attive del lavoro, cioè degli strumenti con cui si devono aiutare i lavoratori che perdono il posto a ritrovarne uno. Su questo terreno si registra un ritardo grave di implementazione che va rapidamente recuperato».
Qualcuno, però, nei giorni scorsi ha parlato di una trattativa fra Pd ed Mdp su un eventuale aggravamento delle sanzioni per il licenziamento ingiustificato. L’ex ministro Damiano ha fatto la proposta di aumentare il limite dell’indennizzo a 36 mensilità.
«Non mi risulta che sia in corso alcuna trattativa su questo punto. Fassino ha manifestato, invece, a tutti gli interlocutori la disponibilità per alcune misure volte ad aumentare la quota dei contratti stabili rispetto a quelli a termine: per esempio una riduzione a 24 mesi del periodo massimo entro il quale si possono prorogare i contratti a termine, che nel 2014 era stato fissato a 36 mesi».
Roberto Speranza, leader di Mdp, pone come condizione per l’accordo col Pd la reintegrazione per i licenziamenti collettivi. Cosa ne pensa?
«Tra le proposte di Mdp non c’è soltanto quella di smontare il Jobs Act, ma anche quella di smontare la riforma Fornero delle pensioni. Non si rendono conto che, senza queste riforme in casa nostra, Mario Draghi non avrebbe mai potuto far accettare a tedeschi, olandesi e finlandesi la politica monetaria incisivamente espansiva della Bce, a cui dobbiamo gran parte della nostra ripresa, sempre più robusta, e l’aumento conseguente della domanda di lavoro. Accogliere quelle proposte equivarrebbe, comunque, a interrompere la partecipazione dell’Italia alla costruzione della nuova Unione Europea».
Secondi calcoli di Repubblica , un eventuale accordo tra Pd e Mdp sulla legge di Bilancio, tra abolizione del superticket sanitario per i redditi medi e rinvio dello scatto dell’età pensionabile, costerebbe oltre 6 miliardi. L’Italia può permetterselo?
«Non solo non può permetterselo, ma sarebbe una scelta senza senso. Avrebbe senso soltanto se oggi in Italia l’emergenza sociale più grave fosse la prospettiva che l’impiegato del Catasto debba lavorare cinque mesi in più prima di andare in pensione; in realtà le emergenze sociali gravi sono tutt’altre. Questa ossessione di Mdp e della Cgil per tornare ad anticipare il pensionamento dei sessantenni dimostra soltanto come l’uno e l’altra stiano perdendo di vista i problemi più gravi del Paese, e si dedichino soltanto a proteggere i già garantiti che rappresentano».
Quella sui licenziamenti economici è una parte del Jobs Act modificabile?
«Su questo capitolo è apertissima la trattativa circa una modifica importante che il governo ha già introdotto nel disegno di Legge di bilancio: la possibilità di anticipare l’attivazione dell’assegno di ricollocazione all’inizio della crisi aziendale, prima ancora del licenziamento collettivo, e un corrispondente onere a carico dell’impresa, che sostanzialmente raddoppia il costo del licenziamento stesso».
In Toscana nel secondo trimestre del 2017 aumentano i lavoratori dipendenti, ma questa crescita è legata ai contratti a tempo determinato. È il segno che con il Jobs Act cresce l’occupazione ma anche la precarietà?
«Incominciamo col dire che nell’ultimo triennio in Toscana si è registrato complessivamente un aumento di quasi 100.000 lavoratori dipendenti, dei quali più della metà a tempo indeterminato. È vero, però, che anche in Toscana, come in tutta Italia, negli ultimi mesi la quota di assunzioni stabili sul flusso totale si è molto ridotta».
Come lo spiega?
«Sicuramente pesa la preoccupazione circa la possibilità che dopo le prossime elezioni in Parlamento si formi una maggioranza favorevole ad abrogare la riforma. Quando il timore circa un possibile ritorno all’indietro si sarà dissipato, la quota delle assunzioni stabili tornerà sopra il 30%, come nel 2016: una quota doppia rispetto a quella del 2014; e dobbiamo aiutarla ad arrivare al 50%, anche con la modifica della disciplina del contratto a termine di cui ho detto prima».
Insomma secondo lei cosa ha funzionato, fin qui, della riforma?
«La nuova disciplina ha favorito l’aumento dell’occupazione: in Italia un milione di lavoratori dipendenti in più nel triennio. E lo ha fatto senza causare per nulla la “precarizzazione” di cui parlano i suoi detrattori».
Come fa a dirlo?
«Sulla base di due dati precisi. Il primo è che nel triennio, nell’area del lavoro dipendente, i rapporti stabili sono aumentati, 565mila, più di quelli a termine, 485mila. Il secondo, ancora più importante, è che in rapporto ai rapporti stabili il tasso dei licenziamenti non è aumentato rispetto al livello, fra l’1,3 e l’1,4%, sul quale era attestato prima della riforma».
Però nell’applicazione quotidiana della legge sembrano crescere i casi di lavoratori reintegrati. Perché?
«Dopo la riforma, ogni sentenza che dispone la reintegrazione di uno o più lavoratori ravvisando nel licenziamento una discriminazione, o una rappresaglia antisindacale, fa notizia molto più di quanto non accadesse prima, molti giornali ne parlano. Però i dati forniti dal ministero della Giustizia parlano molto chiaro: nel 2012 i procedimenti iscritti a ruolo in materia di licenziamento nel settore privato sono stati complessivamente 18.197; nel 2016 sono stati 7.054; e nel primo semestre del 2017 sono stati 3.564. Nel settore pubblico, invece, dove la riforma si è preferito non applicarla, il contenzioso è rimasto quello di prima».
Sul piano politico ci sono iniziative come quella dell’azienda di distribuzione dei pasti nelle scuole della Piana fiorentina che, per decisione dei Comuni soci, ha reintrodotto l’articolo 18.
«Anche i casi come questo, dove lo spirito dell’impiego pubblico fa capolino pure nel settore privato, “fanno notizia”: i media danno loro un risalto superiore alla loro consistenza effettiva. Ma proprio i dati sul contenzioso giudiziale ci dicono che, in realtà, nel settore privato l’articolo 18 come lo abbiamo conosciuto nei decenni passati si avvia all’archiviazione definitiva».
Che cosa, invece, nella riforma non ha funzionato?
«Siamo ancora molto indietro sull’assistenza per la ricollocazione di chi ha perso il posto. Ma qui non è un problema di norme, bensì di capacità di dare loro attuazione».
Le imprese chiedevano da tempo meno rigidità per creare lavoro. Hanno risposto alle attese?
«Un milione in più di lavoratori dipendenti, di cui più di metà stabili, sembra consentire una risposta positiva. Certo in molti consigli di amministrazione prevale ancora la vecchia cultura, legata all’articolo 18, che li porta a preferire le assunzioni a termine rispetto a quelle stabili. Però anche quella cultura, seppure un po’ troppo lentamente, sta cambiando».