Lo stato di emergenza covid si allunga. la tragedia globale obbliga a cambiare strada rispetto agli ultimi anni. Ma Né i vecchi partiti né i nuovi movimenti sono adeguati
Marco Damilano
Un’affaticata, ordinaria cupezza caratterizza lo stato di emergenza, la stralunata normalità che viviamo, in un tempo straordinario. Le file di fronte agli ospedali per fare un tampone, anche otto o nove ore nelle grandi città, per poi sentirsi rimandare a casa con un nulla di fatto. Gli scambi di informazioni su WhatsApp tra le famiglie sulle disposizioni da seguire sul positivo, il contatto con il positivo, il contatto con il contatto con il positivo, come in un sinistro gioco dell’oca. I tamponi estratti come una roulette russa. L’ordine, la pazienza, la rassegnazione con cui avviene tutto.
Per il sistema Italia è una consuetudine, lo straordinario che diventa quotidiano, il provvisorio che si trasforma in definitivo. Ma in questo caso non si tratta di inerzia amministrativa. La pandemia sta per compiere un anno di vita, attraversa le stagioni, è destinata a superare la barriera del 2020. Per il Paese il prolungamento dello stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021 arriva nei giorni della Grande Paura collettiva, dell’obbligo delle mascherine all’aperto, delle liste d’attesa infinite per fare i vaccini contro l’influenza. Non sono finiti con il lockdown (e come potevano esserlo?) i mesi della «tragedia globale» del Covid, di una «tempesta che smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità». Sono le parole del papa Francesco, ripetute nella lettera enciclica Fratelli tutti, firmata ad Assisi il 4 ottobre, il giorno della festa del santo poverello che è il riferimento del papa argentino, più francescano che gesuita.
È il primo documento di riflessione generale a uscire nell’anno della pandemia, rivolto non solo ai cattolici e ai credenti, ma «in dialogo con tutte le persone di buona volontà». Il papa parla a tutti, mentre il Vaticano è sconvolto dalle conseguenze dell’inchiesta sul metodo Becciu anticipata dall’Espresso (Massimiliano Coccia, pagina 36). Intitola il suo messaggio, non breve e lungamente meditato, alla «fraternità e amicizia sociale». Ha un obiettivo polemico dichiarato, sul piano culturale e direi spirituale: il mondo chiuso con le sue ombre, il ritorno all’indietro dei nazionalismi «esasperati, risentiti, aggressivi», ma la sua riflessione va oltre. Francesco attacca i poteri dell’economia e della finanza, il globalismo che impone un modello culturale unico, il «decostruzionismo» che dissolve «la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia», che svuotano di senso democrazia, libertà, giustizia, unità, «espressioni manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione». Si scaglia contro la comunicazione via social, con toni che non usa neppure l’apocalittico documentario Netflix “The social dilemma” sul dominio di Facebook e Google sulle nostre vite: «L’aggressività sociale trova nella rete uno spazio di diffusione senza uguali. Ciò ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti. Nel mondo digitale operano giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico».
In controluce, facilmente riconoscibile, c’è la sagoma di Donald Trump, intento a insultare gli avversari via Twitter, risultando impunito, almeno fino a quando arriverà la sentenza elettorale della notte americana di martedì 3 novembre. Ma ciascuna di queste affermazioni meriterebbe una discussione approfondita. Perché il papa considerato dai nemici interni alla Chiesa e dai suoi simpatizzanti laici come il più progressista, sociale ma anche mondano, sfugge invece alla riduzione orizzontale del suo messaggio. C’è una sfumatura apocalittica: il Covid non è un castigo di Dio, ma non è neppure una pagina che possa essere voltata senza lasciare una traccia profonda nella coscienza e nei sistemi politici e economici. Nel capitolo dedicato alla politica, «la migliore politica», Francesco distingue tra il populismo, che strumentalizza il popolo, «sotto qualunque segno ideologico», per «il proprio progetto personale e la propria permanenza al potere», e l’aggettivo popolare, che invece significa «interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società». Una terza via, popolare, tra il populismo e «le forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti»: «per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste».
In questa difficile terza via tra populismo e individualismo, nella ricerca di contenuti da dare all’aggettivo popolare, perché nulla viene detto dal papa sugli strumenti per raggiungere il fine – né i vecchi partiti né i nuovi movimenti appaiono adeguati – c’è la sintonia con il dibattito pubblico degli ultimi mesi. Il ritorno delle categorie antiche nel tempo nuovo della pandemia che rispuntano negli Stati Uniti chiamati a scegliere il loro presidente e nella vecchia Europa, anche in Italia. Bentornato bipolarismo, si rivedono destra e sinistra. Negli Usa, con lo scontro tra Trump e Joe Biden. In Europa, dove il governo più attrezzato al tempo nuovo è quello tedesco eternamente presieduto da Angela Merkel che di sinistra non è, ma di tradizioni popolari certamente sì, alla guida di una coalizione con la socialdemocrazia che dopo tanti anni non è più una eccezione ma un governo di centrosinistra come quelli che l’Italia ha conosciuto per la prima volta quasi sessant’anni fa. E in Italia, dove andava tanto di moda ripetere «non ci sono soluzioni di destra o di sinistra», ma anche che le categorie del Novecento erano finite, superate dai nuovi movimenti, i cittadini senza bandiere e senza colori, come erano in origine le piazze che affollavano i comizi di Beppe Grillo. Ed ecco invece il presidente della Camera Roberto riscopre il suo sentirsi uomo di sinistra (Repubblica, 7 ottobre), il Movimento 5 Stelle naufraga sul sogno di Gian Roberto Casaleggio raccontato per l’Espresso da Michele Serra (pagina 24) e si divide sulle alleanze e sulla politica, oltre che sulle quote e sui finanziamenti per l’associazione Rousseau .
Il Pd riscopre che con il bipolarismo si può isolare ua destra guidata da Matteo Salvini e perfino tornare a vincere. Vanno via, finalmente, i vecchi decreti firmati dal ministro dell’Interno leghista, ma con molte ambiguità e timidezze, soprattutto sui diritti di cittadinanza per i nuovi italiani che sono il futuro. Ancora una volta tattica, più che strategia. Così come è tattica la legge elettorale che si sta progettando nelle aule parlameatri. Una legge proporzionale che, come spiega Arturo Parisi (Il Foglio, 7 ottobre), costruisce una democrazia fondata sulla rendita di posizione, dove «chi dispone di una porzione di voti stabile non vince mai, non perde mai, ma siede stabilmente al tavolo dei consociati».
È il modello di governance he da anni guida il Pd, il caminetto dei capicorrente, esteso a tutto il sistema politico, con i risultati che si vedono: mediazioni estenuanti per fare un passo in avanti, provvedimenti che attendono più di un anno per essere approvati, indifferenza ai progetti e alle persone. Così, appena riscoperta la parola sinistra e trascinati gli elettori del Movimento 5 Stelle a scegliere da che parte stare, come dimostrano i risultati dei ballotaggi nelle città, si mette su un sistema che consentirà al Pd di celebrare la propria inesorabilità al potere, ma in un quadro di impossibilità di governare. Uno specchio dell’ordinaria cupezza che siamo chiamati a vivere, in questo tempo straordinario.
Per il sistema Italia è una consuetudine, lo straordinario che diventa quotidiano, il provvisorio che si trasforma in definitivo. Ma in questo caso non si tratta di inerzia amministrativa. La pandemia sta per compiere un anno di vita, attraversa le stagioni, è destinata a superare la barriera del 2020. Per il Paese il prolungamento dello stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021 arriva nei giorni della Grande Paura collettiva, dell’obbligo delle mascherine all’aperto, delle liste d’attesa infinite per fare i vaccini contro l’influenza. Non sono finiti con il lockdown (e come potevano esserlo?) i mesi della «tragedia globale» del Covid, di una «tempesta che smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità». Sono le parole del papa Francesco, ripetute nella lettera enciclica Fratelli tutti, firmata ad Assisi il 4 ottobre, il giorno della festa del santo poverello che è il riferimento del papa argentino, più francescano che gesuita.
È il primo documento di riflessione generale a uscire nell’anno della pandemia, rivolto non solo ai cattolici e ai credenti, ma «in dialogo con tutte le persone di buona volontà». Il papa parla a tutti, mentre il Vaticano è sconvolto dalle conseguenze dell’inchiesta sul metodo Becciu anticipata dall’Espresso (Massimiliano Coccia, pagina 36). Intitola il suo messaggio, non breve e lungamente meditato, alla «fraternità e amicizia sociale». Ha un obiettivo polemico dichiarato, sul piano culturale e direi spirituale: il mondo chiuso con le sue ombre, il ritorno all’indietro dei nazionalismi «esasperati, risentiti, aggressivi», ma la sua riflessione va oltre. Francesco attacca i poteri dell’economia e della finanza, il globalismo che impone un modello culturale unico, il «decostruzionismo» che dissolve «la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia», che svuotano di senso democrazia, libertà, giustizia, unità, «espressioni manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione». Si scaglia contro la comunicazione via social, con toni che non usa neppure l’apocalittico documentario Netflix “The social dilemma” sul dominio di Facebook e Google sulle nostre vite: «L’aggressività sociale trova nella rete uno spazio di diffusione senza uguali. Ciò ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti. Nel mondo digitale operano giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico».
In controluce, facilmente riconoscibile, c’è la sagoma di Donald Trump, intento a insultare gli avversari via Twitter, risultando impunito, almeno fino a quando arriverà la sentenza elettorale della notte americana di martedì 3 novembre. Ma ciascuna di queste affermazioni meriterebbe una discussione approfondita. Perché il papa considerato dai nemici interni alla Chiesa e dai suoi simpatizzanti laici come il più progressista, sociale ma anche mondano, sfugge invece alla riduzione orizzontale del suo messaggio. C’è una sfumatura apocalittica: il Covid non è un castigo di Dio, ma non è neppure una pagina che possa essere voltata senza lasciare una traccia profonda nella coscienza e nei sistemi politici e economici. Nel capitolo dedicato alla politica, «la migliore politica», Francesco distingue tra il populismo, che strumentalizza il popolo, «sotto qualunque segno ideologico», per «il proprio progetto personale e la propria permanenza al potere», e l’aggettivo popolare, che invece significa «interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società». Una terza via, popolare, tra il populismo e «le forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti»: «per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste».
In questa difficile terza via tra populismo e individualismo, nella ricerca di contenuti da dare all’aggettivo popolare, perché nulla viene detto dal papa sugli strumenti per raggiungere il fine – né i vecchi partiti né i nuovi movimenti appaiono adeguati – c’è la sintonia con il dibattito pubblico degli ultimi mesi. Il ritorno delle categorie antiche nel tempo nuovo della pandemia che rispuntano negli Stati Uniti chiamati a scegliere il loro presidente e nella vecchia Europa, anche in Italia. Bentornato bipolarismo, si rivedono destra e sinistra. Negli Usa, con lo scontro tra Trump e Joe Biden. In Europa, dove il governo più attrezzato al tempo nuovo è quello tedesco eternamente presieduto da Angela Merkel che di sinistra non è, ma di tradizioni popolari certamente sì, alla guida di una coalizione con la socialdemocrazia che dopo tanti anni non è più una eccezione ma un governo di centrosinistra come quelli che l’Italia ha conosciuto per la prima volta quasi sessant’anni fa. E in Italia, dove andava tanto di moda ripetere «non ci sono soluzioni di destra o di sinistra», ma anche che le categorie del Novecento erano finite, superate dai nuovi movimenti, i cittadini senza bandiere e senza colori, come erano in origine le piazze che affollavano i comizi di Beppe Grillo. Ed ecco invece il presidente della Camera Roberto riscopre il suo sentirsi uomo di sinistra (Repubblica, 7 ottobre), il Movimento 5 Stelle naufraga sul sogno di Gian Roberto Casaleggio raccontato per l’Espresso da Michele Serra (pagina 24) e si divide sulle alleanze e sulla politica, oltre che sulle quote e sui finanziamenti per l’associazione Rousseau .
Il Pd riscopre che con il bipolarismo si può isolare ua destra guidata da Matteo Salvini e perfino tornare a vincere. Vanno via, finalmente, i vecchi decreti firmati dal ministro dell’Interno leghista, ma con molte ambiguità e timidezze, soprattutto sui diritti di cittadinanza per i nuovi italiani che sono il futuro. Ancora una volta tattica, più che strategia. Così come è tattica la legge elettorale che si sta progettando nelle aule parlameatri. Una legge proporzionale che, come spiega Arturo Parisi (Il Foglio, 7 ottobre), costruisce una democrazia fondata sulla rendita di posizione, dove «chi dispone di una porzione di voti stabile non vince mai, non perde mai, ma siede stabilmente al tavolo dei consociati».
È il modello di governance he da anni guida il Pd, il caminetto dei capicorrente, esteso a tutto il sistema politico, con i risultati che si vedono: mediazioni estenuanti per fare un passo in avanti, provvedimenti che attendono più di un anno per essere approvati, indifferenza ai progetti e alle persone. Così, appena riscoperta la parola sinistra e trascinati gli elettori del Movimento 5 Stelle a scegliere da che parte stare, come dimostrano i risultati dei ballotaggi nelle città, si mette su un sistema che consentirà al Pd di celebrare la propria inesorabilità al potere, ma in un quadro di impossibilità di governare. Uno specchio dell’ordinaria cupezza che siamo chiamati a vivere, in questo tempo straordinario.