I morti al Pio Albergo Trivulzio (e non solo)
di Gad Lerner
N on era mai successo nella lunga storia del Pio Albergo Trivulzio che la cappella dei funerali venisse adibita a deposito di bare perché la camera mortuaria non riesce più a contenere le salme avvolte nel sudario. È l’epidemia, certo. Ma è anche l’esito di quella “gestione sconsiderata dell’emergenza” affiorata solo grazie al coraggio dei medici e degli infermieri che continuano a prestare generosamente la loro opera di cura nonostante le direttive assurde e il clima intimidatorio imposti loro dai vertici. Ora toccherà alla Procura di Milano e agli ispettori del ministero della Salute verificare cosa è davvero accaduto nella più grande struttura geriatrica d’Italia.
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segue dalla prima pagina M a appare già evidente l’ingiustificabile tentativo di occultare una realtà drammatica. Come se non bastassero l’esonero del professor Bergamaschini, “colpevole” di aver autorizzato l’impiego delle mascherine il 3 marzo – già in piena emergenza nazionale – e i bollettini che per tutto il mese hanno negato il contagio, leggiamo stupefatti la mail di ieri mattina del direttore generale, Giuseppe Calicchio (laureato in Filosofia), con cui viene commissariata da persona di sua fiducia la camera mortuaria: «Necessito di avere dettaglio puntuale delle salme in cassa e da porre in cassa indicando per ciascuna la data di decesso». Solo ora? «Accertarsi della affidabilità umana e professionale di quanti operano in tale “sacro” contesto». Viene da dubitare della sua, di affidabilità. Intanto, solo nei primi sei giorni di aprile, si contano altri 28 morti. E ci si chiede se anche questo commissariamento non miri a nascondere qualcosa.
Il Pio Albergo Trivulzio, nonostante gli scandali che lo hanno coinvolto nel passato, resta un simbolo della filantropia ambrosiana ed era sempre stato considerato una struttura di eccellenza. Ma è un fatto che solo dal novembre scorso dieci medici hanno scelto le dimissioni in seguito a una gestione definita “dittatoriale” e “incompetente”. Un malessere che ha preceduto la parossistica raccomandazione di presentare il Pat come struttura immune dal coronavirus, a costo di mettere a repentaglio l’incolumità di milletrecento pazienti e del personale. Succedeva, a marzo, quando ormai diversi reparti erano stati isolati, che chiunque potesse andare al bar per la pausa caffè. Salvo poi precludere l’accesso al pronto soccorso dei pazienti bisognosi di cure e minimizzare i decessi attribuendoli a bronchiti e polmoniti stagionali. Tanto che, in tutto il mese di marzo, solo per nove decessi si è riconosciuto il Covid-19 come concausa. Mentre la comparazione con il numero dei morti del 2019 deve tenere conto del diminuito numero degli ospiti, visto che da almeno un mese gli accessi sono di fatto bloccati.
Piovono denunce analoghe dalle Residenze sanitarie assistite di mezza Italia. Anche a Mediglia (64 morti), per restare nell’area milanese, la prima direttiva era stata: «Niente mascherine, spaventerebbero gli ospiti». Ma poi si è aggiunta, l’8 marzo, la delibera di Regione Lombardia che autorizzava a ricoverare nelle Case di riposo i pazienti Covid dimessi per liberare posti letto negli ospedali. Invano contestata l’indomani da Luca Degani, presidente dell’Uneba, la federazione che raggruppa 400 Rsa lombarde. Anche alla Baggina, come i milanesi chiamano affettuosamente il Pat, sono stati trasportati almeno dodici pazienti non testati dall’ospedale di Sesto San Giovanni, e molto probabilmente ciò ha favorito il contagio. Sempre più ospiti venivano mandati in isolamento senza spiegazioni, diffondendo la paura fra il personale e i familiari, senza che venissero effettuati i tamponi.
È grave a dirsi, ma sorge il dubbio che le Case di riposo siano state trattate alla stregua di discariche umane. In Lombardia e nel resto d’Italia. L’emergenza in corso non può essere usata come alibi per occultare simili eventuali comportamenti. È un bene che Salvini abbia ritirato l’emendamento al decreto “Cura Italia” in cui proponeva l’immunità per i dirigenti sanitari. Lo ha fatto, parole sue, «per evitare fraintendimenti».
Il Pio Albergo Trivulzio è una grande struttura pubblica, uno dei primi quattro poli geriatrici europei. Da oggi è anche il luogo simbolo da cui s’impone di dissipare il clima avvelenato di omertà, per rispetto delle famiglie che gli hanno affidato i loro cari anziani, ma anche di tutta la città di Milano che lo annovera fra le sue istituzioni più antiche.
La diffida con cui presidenza e direzione del Pat hanno pensato di intimidire Repubblica, dopo che ha riferito le denunce del professor Bergamaschini e del sindacalista La Grassa, non potrà certo frenare la richiesta di trasparenza oggi ribadita anche dal sindaco di Milano. Le inchieste, giornalistiche, giudiziarie e ministeriali, devono proseguire senza guardare in faccia nessuno. I medici, gli infermieri e i familiari che temono per la sorte dei loro congiunti, devono poter rilasciare le loro testimonianze senza il ricatto di venir sottoposti a provvedimenti disciplinari, come purtroppo è già accaduto.
Sarebbe indegno fornire coperture di natura politica, figlie della lottizzazione, ai responsabili di comportamenti scorretti e minacciosi. Come è noto, la responsabilità operativa del Pat è di pertinenza della Regione, che vi ha collocato “il filosofo” considerato di area leghista; mentre il presidente, Maurizio Carrara, indicato dal Comune di Milano per svolgere funzioni di rappresentanza non operativa, è considerato di area di centrosinistra. Poco importa. Dovranno essere giudicati sulla base dei loro comportamenti. Repubblica è un giornale, non un tribunale che emette sentenze. Ma certo che, se non verrà smentito dai fatti, il comportamento di Calicchio e Carrara sembra incompatibile con la permanenza ai vertici della struttura pubblica.
Lo dobbiamo anche a quelle bare allineate nella cappella della camera mortuaria. E al personale che continua a sfidare con professionalità e generosità il coronavirus per alleviare la sofferenza degli ospiti della Baggina.