l regime spaventa l’area, incerte le opzioni d’intervento
Antonio Fiori
La «zona smilitarizzata» (Dmz) che corre lungo i 250 chilometri che dividono le due Coree è uno dei retaggi più fulgidi della guerra fredda. Se, infatti, alla fine della Seconda guerra mondiale la penisola venne divisa al famigerato 38° parallelo in due sfere di influenza — il Sud in quella americana e il Nord in quella sovietica — fu a causa del confronto bipolare, la cui quintessenza fu proprio la guerra di Corea (1950-1953), che la divisione finì per cristallizzarsi, facendo sì che due entità appartenenti al medesimo territorio intraprendessero un cammino solitario e diverso. I due Stati hanno avuto storie divergenti: il Nord fermamente nelle mani della famiglia Kim ha conservato l’ideologia comunista entrando nell’orbita sovietica (fino al 1991) e, soprattutto, cinese; il Sud, dopo una lunga esperienza di dittatura militare, ha conquistato nel 1987 lo status di democrazia consolidata diventando una nazione ricca e protagonista sullo scenario internazionale, anche in virtù della sua robusta alleanza con gli Usa. Il triste elemento di continuità che accompagna da oltre settant’anni le vite dei cittadini di Seul e Pyongyang è quindi la mancanza di contatti diretti. E a ridosso della Dmz — il «posto più terrificante del mondo», a circa 60 chilometri da Seul e 200 da Pyongyang — è presente una delle massime concentrazioni di forze armate in assoluto.
A metà degli anni Novanta la comunità internazionale ha dovuto fare i conti con l’inizio della trasformazione della Corea del Nord da intransigente bastione del comunismo in Asia a pericolosa potenza nucleare. Negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno adottato molteplici strategie nei confronti di Pyongyang, intavolando negoziati volti a favorire il dialogo o procedendo all’assoluto isolamento; nessuno di questi approcci ha comunque persuaso la dinastia Kim ad abbandonare gli obiettivi in ambito nucleare. Peraltro, se lo sviluppo del programma atomico rappresentava un esercizio meramente simbolico sotto Kim Il-sung — il «padre della patria» morto nel 1994 — esso è diventato realtà da quando il giovane nipote Kim Jong-un è salito al potere (2011), tanto da mettere il regime nella posizione di minacciare direttamente il territorio degli Stati Uniti, grazie anche agli sbalorditivi passi in avanti compiuti nella gestione del programma missilistico. Benché le prospettive non sembrino incoraggianti, risulta abbastanza ovvio pensare che Pyongyang non abbia mai realmente nutrito velleità di attacco nei confronti dei vicini regionali e, ancora meno, verso gli Usa; il vero scopo del nucleare nordcoreano è senza dubbio difensivo. Le armi nucleari, infatti, costituiscono il mezzo più semplice per acquisire un certo rispetto internazionale (all’esterno) e soddisfare le ambizioni dei militari (all’interno), aspetto che più di tutti conferisce legittimazione ai Kim.
Sebbene la Corea del Nord appaia inossidabile, due sembrano essere le possibili strade attraverso cui il regime di Kim Jong-un potrebbe essere spazzato via: quella esterna, cioè attraverso un attacco militare ai danni del Paese, presumibilmente dagli Stati Uniti; e quella interna, ovvero il crollo del regime per cause non esterne. Entrambe provocherebbero difficoltà tali da fare sprofondare la penisola — e la regione — nel caos.
Circa la prima possibilità, sono molteplici le ragioni per cui Washington vorrebbe privare Pyongyang del suo programma nucleare. Qualunque azione militare intrapresa da Washington, sebbene in passato sia stata considerata un’opzione da tenere in conto, potrebbe però avere conseguenze inimmaginabili. Intanto, a meno che la situazione precipiti del tutto, è lecito escludere la possibilità di un’invasione su vasta scala, sebbene proprio questa sia l’unica reale opzione in grado di porre permanentemente fine alla minaccia rappresentata dalla Nord Corea. Anche l’eventualità di un blocco navale o aereo sarebbe considerata altamente provocatoria: tale modalità, inoltre, avrebbe un effetto limitato e non inciderebbe sull’eliminazione o rallentamento del programma nucleare nordcoreano. Sempre contemplato dagli americani, infine, è l’intervento contenuto, portato dall’aviazione, contro specifici obiettivi — come i siti di riprocessamento del materiale fissile — in territorio nordcoreano. Anche un intervento così porrebbe grandi difficoltà: in primo luogoperché i siti nucleari si sono moltiplicati dagli anni Novanta e molti sono sottoterra; poi perché i nordcoreani hanno dimostrato di essere ormai in grado di lanciare i razzi — magari dotati di una testata nucleare — anche da mezzi mobili: nel caso alcuni di questi mezzi non fossero distrutti la capacità di rappresaglia di Pyongyang non verrebbe eliminata; e alcune installazioni potrebbero trovarsi presso il confine con la Cina, per cui un’azione militare statunitense comporterebbe il rischio di coinvolgere inavvertitamente la Repubblica Popolare. Per quanto limitato l’iniziale intervento militare possa essere, la difficoltà principale sta nella quasi totale impossibilità di evitare un successivo conflitto, dato che comunque Kim sarebbe costretto a reagire per non essere tacciato di debolezza dall’eventuale opposizione interna. Persino una successiva decapitazione del regime potrebbe condurre a una ritorsione, dal momento che, nell’eventualità di un conflitto, le unità nordcoreane sono istruite ad aprire il fuoco contro Seul senza che ciò venga comandato dall’alto.
La seconda possibilità, quella interna, lascia intravedere due strade: il crollo del regime o il crollo del governo. Nel primo caso, Kim Jong-un verrebbe scalzato da qualche altro leader, presumibilmente militare: in questo caso, i meccanismi di controllo e le istituzioni nazionali potrebbero rimanere inalterate, anche se per il primo periodo si assisterebbe a un certo grado di confusione; e il nuovo capo potrebbe sbarazzarsi della leadership precedente. Nel secondo caso, i Kim sarebbero comunque sconfitti e detronizzati, ma nessun altro attore riuscirebbe a dare vita a un nuovo governo centrale; in questo caso, quindi, la Nord Corea potrebbe cadere preda di varie fazioni che punterebbero al controllo di varie zone del Paese; gran parte delle funzioni di governo scomparirebbe e così il complesso sistema di controllo, lasciando il posto a un continuo confronto tra le parti. Un crollo di questo genere, inoltre, si tradurrebbe in una sentenza di morte per moltissimi cittadini, piombati in un’assoluta mancanza di generi di prima necessità; i soldati cercherebbero di accaparrarsi quanto disponibile e le organizzazioni umanitarie ridurrebbero l’assistenza per i problemi relativi all’incolumità dei cooperanti. L’inevitabile guerra civile potrebbe avere conseguenze drammatiche anche per la Corea del Sud: una o più delle fazioni coinvolte, infatti, potrebbero attaccare — con armi convenzionali o nucleari — la Repubblica di Corea, come forma di rivalsa nel caso in cui percepissero la propria sopravvivenza come poco probabile. I danni, non solo infrastrutturali, ma anche e soprattutto economici e sociali, sarebbero incalcolabili per Seul e l’intera penisola finirebbe nel caos. È abbastanza scontato, peraltro, che la Cina possa intervenire, sia per mettere in sicurezza l’arsenale atomico nordcoreano sia per evitare qualunque forma di unificazione della penisola sotto l’egida di Corea del Sud e Stati Uniti. Nonostante la pericolosità della Nord Corea, è lecito convenire che un subitaneo crollo del regime sia un’ipotesi indesiderata per tutti gli attori coinvolti. E allora tanto vale tenersi i Kim.
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