di Daniele Manca
L’esito non può essere quello descritto dalla legge di Herbert Stein: se qualcosa non può andare avanti in eterno, si fermerà. E soprattutto non può essere una strategia, anche se in questi giorni di confronto tra Europa e Grecia è sembrata esserlo, da una parte e dall’altra. Non può consolare che in 14 giorni siano stati convocati 7 Eurogruppi straordinari. L’ultimo per oggi. Anzi, proprio questo numero dà la misura di quanto si sia sottovalutata la situazione nei mesi scorsi. Il principio di responsabilità che dovrebbe guidare ogni persona in grado di prendere decisioni, soprattutto se queste producono effetti su popoli e nazioni, è stato continuamente violato. È prevalsa l’idea che farsi male un pochino di meno del vicino potesse essere una buona via di uscita dallo stallo. Margaret Thatcher aveva forse una visione estrema dell’Europa, al punto di considerarla non un fine quanto un mezzo per assicurare proprietà e sicurezza ai suoi cittadini. Ma da qui a pensare che il pragmatismo non debba essere connaturato all’Europa ce ne passa. Il fatto che un qualcuno, un Paese, contragga debiti e che metta in discussione la possibile restituzione non è solo la violazione di un contratto, ma quella di un principio sul quale si fonda gran parte del meccanismo economico: la fiducia. Q uesto era vero non soltanto da ieri, ma dal giorno dopo della vittoria di Tsipras. Da quel 25 gennaio scorso è stato chiaro che il nuovo governo di Syriza considerava quei debiti contratti dai precedenti esecutivi come un non impegno.
Ieri sera è arrivata così una nuova richiesta da Atene di estensione degli aiuti, un terzo salvataggio, mentre contemporaneamente il governo greco si avviava a non pagare gli 1,6 miliardi di euro di rimborso dovuti al Fondo monetario internazionale. Immediato è stato il no dell’Eurogruppo che attende per questa mattina una ulteriore proposta di Tsipras .
Ma, così come nei mesi scorsi, quello di ieri è apparso ancora una volta un rifiuto di maniera. Rituali tentativi di guadagnare tempo da ambo le parti. Come se non se ne fosse già perso abbastanza. E quasi che fosse per sempre scomparsa la sana abitudine di fermare gli orologi nelle trattative importanti in cerca di una soluzione senza la quale non si sarebbe usciti dalla stanza .
Si arriva in questo modo alle non scelte che alimentano l’incertezza. Quell’incertezza che è il tarlo che impedisce alle imprese che possono di investire, alle famiglie che ne hanno i mezzi di consumare. Che inceppa l’economia. Testimonianza di una politica che cerca sempre e solo il consenso e che quindi allontana decisioni che potrebbero essere impopolari. Scaricando, come nel caso greco, l’onere della decisione sui cittadini con un referendum.
Finisce per prevalere sulla concreta analisi dei costi e benefici, l’oscillare tra una visione contabile della vicenda e la completa assenza della comprensione che l’euro non è soltanto una moneta. A renderlo evidente è stata la manifestazione di migliaia di ateniesi che ieri sono andati in piazza per esprimere sotto una pioggia battente il proprio sì al piano di salvataggio europeo. Quei cittadini che nonostante le evidenti difficoltà nelle quali la Grecia si trova, pensano ancora all’Europa e alla moneta unica come quel sogno «realizzato» che aveva reso felice Carlo Azeglio Ciampi nel 2001. A quei cittadini e agli altri 500 milioni di europei servono risposte, non rinvii.