Per carità, ha ragione la Crusca quando invita a evitare anglicismi superflui. Però Albione ci regala qualche termine meraviglioso che sarebbe un peccato non utilizzare. Prendiamo cringe: significa, più o meno, sentirsi in imbarazzo, ma non proprio. Rimane intraducibile la sensazione fonica che striscia limacciosa nelle orecchie, il fastidio fisico, un prurito, uno starnuto, il desiderio di chiudersi in bagno, lavarsi la faccia e i denti. Cringe ci serve, perché è la parola perfetta per descrivere l’ultima trovata di Giuseppe Conte. Immaginiamo Rocco Casalino – proprio lui, ma solo per dare un volto all’ampia scuderia di propagandisti del governo – che riceve la lettera, verosimilmente riscritta in fantozziano burocratese da un genitore del mittente, e fiuta l’occasione. Immaginiamolo pianificare l’operazione simpatia, seduto al tavolo degli esperti di comunicazione, hipster, post-hipster o hipster mancati, presi nel brainstorming a comporre, riga dopo riga, la paterna, anzi nonnesca, risposta del Presidente del Consiglio. Ecco, ci si sente sporchi, si ribella il senso naturale dell’opportunità, quello che suggerisce anche agli animali un’inconsapevole grazia: dunque, cringe. Però intendiamoci: il discorso non è bassamente politico. È letterario, forse persino esistenziale. Non si tratta di attaccare il governo passando per la porta di servizio. Giudicare l’operato di Conte in questo momento sarebbe inopportuno, primo perché non si scorgono ancora le conseguenze future delle sue scelte, secondo perché, in buona parte, le sue scelte sono automatismi che fanno scattare, apoliticamente, il meccanismo delle misure restrittive al crescere dell’indice di contagio. Chiarito questo, rimane il mal di pancia.
Senza appellarci alla troppo facile, e forse ingiusta, reductio ad Hitlerum, diciamo l’ovvio: una comunicazione che ricorre ai bambini è sempre paternalistica. Innanzitutto, il bambino si trova in una duplice condizione di minorità: perché bambino, e perché strumento lessicale di un discorso che non gli appartiene. E poi, tutti quelli che guardano sono chiamati alla minorità: il propagandista estorce al pubblico la tenerezza, la rinuncia all’aggressività; delegittima il conflitto perché c’è un indifeso a fare da scudo umano, organizza il desiderio di protezione in forma piramidale, con all’apice il Gran Protettore. In questo caso Conte, ma è irrilevante: l’espediente è sempre lo stesso, che se ne avvalgano democrazie, dittature, aziende o chiese. La propaganda delle democrazie, però, è anche un tradimento. Una certa saggezza popperiana vuole che la democrazia non serva a scegliere i governanti migliori, ma a impedire che i peggiori facciano troppi danni: quando una democrazia parla per rafforzare il potere esecutivo, invocare l’unità nazionale, ridurre lo spazio della critica, promuovere la delazione – cioè, normalizza gli strumenti che verranno usati dai governanti peggiori – sta già mancando alla propria vocazione.
Più a fondo, questa narrazione dei bambini in tempo di pandemia – da una parte come dall’altra – non è deamicisiana solo perché brutta come quello che scriveva De Amicis, ma perché emersa dallo stesso scantinato ideologico. Nazionalista, socialista – non importa di quale De Amicis parliamo: il punto è che, con la diffusione della scuola pubblica di massa, il bambino smette di essere individuo e diventa categoria, questione sociale. Oppure, smette di essere presente e diventa futuro in attesa. Pannelli di pedagoghi si interrogano su come fare del bambino qualcosa d’altro, colmarne le insufficienze proponendo, a seconda, metodi violenti o benevoli; tramite la scuola lo stato colonizza l’infanzia come si colonizza un paese africano – a ben vedere, la pretesa disciplinaria e civilizzatrice è più o meno la stessa:
Crescere nella condizione di bambino significa essere condannati ad un conflitto disumano tra la propria coscienza di sé e il ruolo imposto da una società che sta attraversando la propria età scolare. […] La sapienza istituzionale dice che i bambini hanno bisogno della scuola. […] Ma questa sapienza istituzionale è a sua volta un prodotto della scuola […]. Solo segregando gli esseri umani nella categoria della fanciullezza è possibile assoggettarli all’autorità di un insegnante.
Ivan Illich
Illich, come sempre, deflagra alle fondamenta della modernità e basta a demolire sia la retorica soteriologica della scuola con cui Azzolina continua ad ammorbarci, sia l’illusione del bambino come categoria. Un’illusione che gonfia le tasche e il torace di educatori a colpi di parole ed educatori a colpi di psicofarmaci – i primi poco più inutili che dannosi, i secondi viceversa. E dei propagandisti, ovviamente, perché il bambino nella propaganda incarna sempre la più banale categoria-bambino, mostrata da adulti ad altri adulti che se la aspettano esattamente così. La lettera di Conte, superfluo specificarlo, non è una risposta, un dialogo: solo una strumentalizzazione.
Umberto Eco, qualche decennio prima di diventare noioso, scrive un delizioso saggio anti-deamicisiano intitolato Elogio di Franti – ed è triste che Eco si sia infine trasformato da spassoso fustigatore del vittorianesimo in mesta icona intellettuale della società contemporanea, che è il vittorianesimo più la banda larga. Ma insomma:
Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile.
Umberto Eco
E allora, Casalino o chi per lui, agiografi di Conte ma pure di chiunque comandi da qualsiasi parte: la carezza da portare ai bambini è, se proprio si deve, quella del papa, in attesa, per quanto delusa, del tempo sacro in cui tutti saranno bambini – non certo la carezza del re. Non arruolateli nella milizia, i bambini, per spalare altrove le macerie del potere bombardato dalle circostanze; non li trascrivete come fossero l’emoji del cuoricino in calce al Dpcm; lasciateli parlare ma non raccontateli, ché le parole giuste si perdono nella traduzione; non proclamatevi salvatori dei bambini, non misurateli sul tavolo dell’anatomista sociale per disincantarli come l’arcobaleno di Keats, ma nemmeno ingozzateci tutti con la mitologia decrepita dell’infanzia; non fatene un mezzo, non convinceteli a obbedire perché si sentano in colpa i ribelli, a ribellarsi perché siete troppo vecchi per farlo voi. Non è difficile, alla fine del discorso basta Giorgio Gaber:
non insegnate ai bambini/ non insegnate la vostra morale/ è così stanca e malata/potrebbe far male.
Giorgio Gaber