I MILLENNIAL PAGANO PER TUTTI
«Dire che sui giovani adulti ci giochiamo il futuro del Paese non è una frase ad effetto. Piuttosto significa rendersi conto che dalla capacità occupazione dell’attuale generazione di trentenni dipenderà la stabilità del debito pubblico e la sostenibilità del sistema di welfare: pensioni, sanità, assistenza sociale», incalza Massimiliano Valerii, direttore del Censis. Invece una generazione di cinquantenni, gli stessi che hanno provato (senza riuscirci) a tirare fuori l’Italia dalla crisi del 2009, s’accomoda agli Stati Generali di Villa Pamphili, organizzati dal premier Giuseppe Conte per discutere il piano di rinascita del Paese, lasciando alla porta i giovani adulti, ovvero coloro che pagheranno il conto complessivo di ogni decisione presa in questi mesi. Anche stavolta nessuno li ha invitati: «La miope politica, sempre in cerca di consenso, preferisce accontentare bacini elettorali più consistenti, anziché pensare ai giovani, che sono pochi e portano meno voti: ecco perché nell’agenda politica non si parla di disoccupazione giovanile e neet». Eppure la posta in gioco è altissima se si considera che, a causa delle necessarie manovre finanziarie di salvataggio per l’emergenza sanitaria, il rapporto fra debito pubblico e Pil rischia di stabilizzarsi fra il 130 e il 150 per cento e la prospettiva è una caduta del Pil nel 2020 dell’8,3 per cento, seguito da un rimbalzo del 4,6 nel 2021: quindi non abbastanza per tornare ai livelli del 2019, dove già si respirava aria di recessione.
Spiega l’Istat che alla vigilia del Covid i giovani dovevano ancora recuperare otto punti percentuali rispetto ai tassi di occupazione del 2008. E nei due mesi di lockdown ne hanno persi altri due. Nel 2007 i giovani presentavano un tasso di occupazione superiore ai cinquantenni di 23,7 punti, ma ad aprile 2020 i 50-64enni li hanno superati. Ad aumentare, per gli under 40, è invece il part time involontario: più 74,5 per cento. Di più: nel confronto con trent’anni fa, il reddito, i consumi e la ricchezza dei giovani si sono ridotti del trenta per cento, mentre per gli anziani il reddito è aumentato del 28 per cento, i consumi sono cresciuti del 32 e la ricchezza è schizzata a più 89 per cento.
TENTAZIONE ESPATRIO
La sensazione, per chi è nato negli anni Ottanta e fa quindi parte della generazione Millennial, è quella di essere stati messi ai margini: «L’Italia è un paese bellissimo che ha coltivato cervelli fragili, schiacciati dai grandi, che non hanno avuto alcuna voglia di supportarli, nonostante abbiano goduto di professioni ben retribuite e grandi privilegi. Siamo la generazione Kleenex, usa e getta, come i contratti di uno o due giorni che m’è toccato firmare per arrivare a fine del mese. Ci hanno ferito nel profondo, ci avevano promesso la luna, siamo rimasti con un pugno di mosche. Alcuni di noi sono andati a fondo, altri – a furia di batoste – si son fatti forti. Ma saremo abbastanza forti per affrontare la crisi economica che sta per travolgerci (nuovamente)?», si domanda Francesco Pistilli, classe ’82, abruzzese, fotografo, vincitore del World Press Photo 2018 con Lives in Limbo, dieci scatti a Belgrado sulla rotta balcanica dei migranti. La notorietà non lo ha reso ricco: «Non ho un’automobile né una casa di proprietà, cose che a vent’anni t’immaginavi avresti ottenuto fra i trenta e i quaranta. Invece ho un tenore di vita low budget e l’unica novità introdotta dal Coronavirus è l’idea che è giunto il momento di cambiare paese».
Già, espatriare. Negli ultimi cinque anni sono andati all’estero 200 mila giovani, uno su tre laureato. Accade perché, dice l’Istat, oltre confine i dottori di ricerca guadagnano mille euro in più rispetto ai colleghi rimasti in Italia, i quali raggiungeranno quello stesso reddito in circa trent’anni di carriera.
Per colpa del Covid una nuova ondata di under 40 è pronta a fare le valigie. Simona Boccioli ha 38 anni, nel 2012 ha aperto a Torino un’agenzia viaggi: «L’azienda è sana, ma ha subito un colpo tremendo. L’anno è perso, mi sono tagliata lo stipendio a zero per pagare bollette e tasse. Se dovesse andare male, non continuerò a fare l’imprenditore in Italia, perché questo è un paese in crisi perenne che mal distribuisce le proprie risorse: davvero c’era bisogno di risanare un’altra volta Alitalia, lasciando annegare un’intera generazione, schiacciata fra le due crisi? Sono arrabbiata con la classe dirigente che sta facendo pagare a noi uno scotto altissimo, sono arrabbiata con chi ha introdotto il reddito di cittadinanza, senza prima risolvere quella voragine generazionale che a me – pur lavorando da 18 anni – non permette ancora di poter pensare a una famiglia. Se il Covid mi costringerà a chiudere bottega, andrò all’estero, dove molti coetanei hanno fatto carriera, mentre qui si diventa matti per un contratto». Non per incompetenza, ma per assenza di opportunità, come spiega Martina Dalmolin, 34 anni, laureata in Amministrazione e Politiche Pubbliche: «Quando non mi hanno rinnovato il contratto di dottorato al Politecnico di Milano sono andata in crisi. Pensavo di non essere all’altezza. È stato un dramma personale. Sono seguiti anni di rinnovo annuale in altre Università, ci sono stati dei periodi in cui non ho percepito uno stipendio e mi è capitato di dover chiedere aiuto alla famiglia per le rate del mutuo», ma da settembre Dalmolin si trasferirà a L’Aquila, al Gran Sasso Science Institute, dove ha vinto un assegno di ricerca triennale. Poi? «Si vedrà».
LO SPETTRO DELLA DISOCCUPAZIONE
Enrico Giovannini, economista, portavoce di Asvis e membro della task force di Vittorio Colao, spiega come «di fronte a questa crisi economica, un atteggiamento difensivo delle aziende porterà a licenziare le categorie più deboli, quindi i giovani: rischiamo una bomba sociale, perché stiamo parlando di persone adulte che non hanno accumulato alcuna ricchezza e potrebbero sprofondare in povertà assoluta. Solo la lungimiranza delle imprese che sceglieranno di affrontare la crisi con una politica espansiva, puntando sulle competenze dei giovani e sull’innovazione che portano con sé, potrà invertire un declino altrimenti inarrestabile per il paese». Già ad aprile, nel pieno del lockdown, gli occupati sono calati di 274 mila unità in un solo mese e una più accentuata flessione potrebbe verificarsi in autunno, quando cadranno le protezioni della cassa integrazione. A questo si aggiunge l’illusione ottica del calo del tasso di disoccupazione (dall’otto al sei per cento): «Succede perché cresce il numero di inattivi, cioè coloro che sono scoraggiati, non lavorano e non lo cercano neppure. E sono gli under 40. Per loro è indispensabile ripartire dalla Garanzia Giovani, estendendola ai tanti che resteranno ai margini». Garanzia Giovani è un progetto nato nel 2014 da un’iniziativa europea per combattere l’inoccupazione giovanile: in Europa colpisce il 15 per cento degli under 29, in Italia il 24 per cento, 2,1 milioni di persone, record assoluto tra i paesi del vecchio Continente. In sei anni Garanzia Giovani ha preso in carico oltre 1,3 milioni di ragazzi, 720 mila hanno iniziato un percorso di inserimento, di questi il 60 per cento sta lavorando, qualcuno è tornato a scuola. «Nulla vieta di replicare questo modello a una fascia di età più ampia, considerato che i fondi europei andranno nella direzione della lotta alla disoccupazione», spiega Giovannini. Infatti i 172 miliardi che potrebbero venire dall’Unione Europea con il Recovery Fund – 82 come sussidi a fondo perduto e 90 come prestiti a tassi bassissimi – potranno essere incassati solo a fronte di progetti chiari di riduzione dell’oggettivo conflitto di interessi in atto fra le diverse generazioni di cittadini.
IL TEMPO STRINGE
C’è poi un altro problema che a lungo termine tocca i Millennial: si chiama pensione da fame. Secondo le analisi di Michele Raitano, economista alla Sapienza di Roma, la quota di giovani adulti entrati nel mondo del lavoro tra il 1996 e il 2008 che nei successivi otto anni di lavoro ha guadagnato in media meno di mille euro al mese si attesta attorno al 60 per cento: «Questo succede a causa di carriere discontinue, part time involontari, bassi salari e per via della forbice, sempre più ampia, fra pochi manager con stipendi stellari e una sempre più grande platea di working poor. Visto che l’attuale sistema pensionistico è contributivo puro, se questi giovani non aumenteranno considerevolmente e in fretta la propria retribuzione, rischiano di ricevere da anziani una pensione molto bassa anche dopo decenni di attività». Una riforma è in discussione da anni e prevede la tutela dei periodi di inattività involontari e un aiuto per chi ha lavorato a lungo ma versando pochi contributi: «Chi accumula poco denaro per la pensione, non perché non si sia dato da fare o abbia lavorato a nero, ma per via di bassi salari o di una carriera discontinua, deve avere la certezza di guadagnare un’indennità pensionistica superiore a una certa soglia, che dipende dal numero di anni in cui è stato attivo. Così si incentiva il lavoro produttivo. Altrimenti, se lavorare comporta uno stipendio basso e un’altrettanta pensione da miseria – di valore non distante dall’assegno sociale, che oggi è pari a 460 euro al mese – cosa disincentiva i cittadini dallo stare mani in mano o lavorare in nero, attendendo il reddito di cittadinanza e l’assegno sociale?». Un ragionamento di senso, ma che non porta voti alla politica: ecco perché quella riforma non viene mai seriamente presa in considerazione.
ORA TOCCA AI GIOVANI
Eppure i Millennial sono l’unica risorsa che l’Italia possiede per uscire da questa crisi con le riforme e i cambi di passo chiesti dall’Unione Europea in cambio dei finanziamenti del Recovery Fund. «Si chiamano Millennials proprio perché sono stati appositamente formati e istruiti per essere interpreti potenti del nuovo millennio, sono stati dotati di un bagaglio di conoscenze e competenze enorme, sufficiente a traghettare l’Italia fuori dalla crisi infinita, con le armi dell’innovazione, della cultura, della ricerca», dice il demografo Alessandro Rosina. Nel 2009 i Millennial si sono affacciati al mondo del lavoro, diventato flessibile e insicuro. Parallelamente hanno scoperto che le generazioni precedenti avevano caricato sulle loro spalle un debito pubblico gigantesco. E hanno continuano a farlo crescere, il debito pubblico, tenendosi ben strette le chiavi dell’economia e del sistema: «Adesso che hanno trent’anni vengono colpiti in pieno dalla crisi sanitaria, che ha ridotto fortemente le loro prospettive di crescita, li ha impoveriti e li sta nuovamente lasciando ai margini. Infatti l’Italia sta rimandando in campo la vecchia squadra, quella che non è riuscita a far cambiare il paese nel 2009. È rischioso lasciare in panchina i titolari, i Millennial, che alla soglia dei quaranta hanno il diritto di ridisegnare il paese, perché fra cinque anni saranno loro l’ossatura economica, lavorativa, sociale del paese. Invece, far scendere in campo una squadra dai capelli bianchi significa frustrare e ferire a morte i trentenni, mentre i migliori talenti andranno a giocare in qualche squadra straniera (gli expat) e l’Italia non si riprenderà mai più».
Oppure i giovani possono prendersi quello spazio, senza chiedere il permesso. Lo sta facendo Annarita Masullo, 37 anni, manager e imprenditrice: «Gestisco Off Topic, uno spazio musicale di Torino. Per il mondo della musica e degli eventi il covid è stato un assassino. Ma anche un’opportunità di cambiamento». In pochissime settimane una nuova generazione di manager, produttori, artisti, musicisti, tecnici under 40 al di fuori dalle lobby e dalle associazioni di categoria ha creato la piattaforma digitale La Musica Che Gira: 32 esperti del settore che hanno portato al governo una serie di proposte concrete, da nuovi regimi di tassazione alle soluzioni per tornare a fare musica e spettacoli in sicurezza. «Ce le siamo prese, le chiavi del sistema. I grandi vecchi del mondo musicale non li abbiamo coinvolti, banalmente perché non avevano gli strumenti tecnologici per dialogare con noi, non avevano la forza per rispondere alle chat alle due di notte, come abbiamo fatto noi, sempre attivi, sfruttando sistemi di intelligenza collettiva, nuovi modelli di programmazione. Il nostro obiettivo è rifondare su basi solide il settore della cultura, che da solo fa il 16 per cento del pil, il doppio se si pensa all’indotto e alle ricadute su turismo e ristorazione». La Musica Che Gira è il primo esempio di come l’industria e l’economia non devono ripartire seguendo le stesse logiche del passato, non possono pensare di abbattere i costi pagando poco i nuovi arrivati, ma come spiega Rosina: «Il paese deve essere messo al servizio del meglio che le nuove generazioni possono dare. Le aziende, le fabbriche, le imprese devono essere luoghi in cui trasformare il capitale umano in benessere per il paese. Deve essere un’inversione totale». E se il paese non sarà disposto a cedere le chiavi del sistema, allora, come dice Annarita Masullo: «Prendiamocele queste chiavi, prendiamocela la responsabilità di avere quasi quarant’anni. Del resto lo slogan di noi Millennial è sempre stato “se puoi sognarlo, puoi averlo”»