di Massimo Franco
A questo punto il problema non è più la candidatura di Vincenzo De Luca in Campania, ma il Pd. Meglio, «i» Pd. La pubblicazione della lista dei cosiddetti «impresentabili» da parte della commissione parlamentare Antimafia appare, forse perfino al di là delle intenzioni, l’apice velenoso dello scontro nel partito del presidente del Consiglio. E proietta, dilatata ed esasperata, l’immagine di una forza divisa da rancori che riaffiorano a due giorni dal voto regionale di domenica; e frantumano nel modo più eclatante un simulacro di unità che neppure il timore del responso elettorale è riuscito a salvaguardare.
Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia ed esponente della minoranza del Pd, ieri ha sostenuto una tesi singolare. Ha detto che la commissione ha aspettato fino all’ultimo a diramare i nomi dei diciassette candidati (poi ridotti a sedici perché c’era un errore) ritenuti poco presentabili, per non interferire nelle elezioni. Ma era scontato che in realtà l’esito sarebbe stato opposto: tanto più dopo che Matteo Renzi e l’intero gruppo dirigente del Pd si erano sbilanciati a favore di De Luca, sfidando la legge Severino e la decisione di appena due giorni fa della Corte di cassazione. È stato precisato che la Bindi non si è mossa autonomamente: ha seguito le indicazioni dell’Antimafia. Eppure, rimane il sospetto che sul pasticcio di una candidatura a dir poco controversa si sia innestata l’ennesima faida nel Pd. Un surrogato di scissione, o forse un suo anticipo; comunque, un atto che non potrà non preludere ad una feroce resa dei conti postelettorale nel cuore della maggioranza governativa: sia che Renzi riemerga con l’aureola del vincitore in gran parte delle sette Regioni; sia che l’esito risulti meno favorevole. La questione degli «impresentabili» segna uno spartiacque nello scontro tra le tribù di quello che, verrebbe da dire al passato, è stato il Pd.
Gli attacchi virulenti dei renziani contro la Bindi, e la reazione stizzita di alcuni esponenti del partito in sua difesa, ne sono il preludio. Il tema è scivoloso. Affidare ad un organo politico come l’Antimafia una sorta di censura morale, a urne quasi aperte, contro alcuni candidati, sa di giustizialismo fuori tempo massimo. Questo non significa sottovalutare né nascondere gli errori o l’insipienza, o entrambe le cose, di partiti che sembrano incapaci di selezionare i dirigenti con criteri di onestà e competenza. Né si può ignorare la tentazione del Pd di aggirare le leggi in base alle convenienze del momento.
Ma bisogna chiedersi perché l’iniziativa dell’Antimafia non sia stata presa prima; e come mai abbia prevalso una certa estemporaneità. L’effetto è comunque devastante. Non si sente soltanto l’eco eterna del cupio dissolvi di una sinistra in questo caso lacerata dall’avvento di Renzi. L’aspetto più inquietante è il riflesso che l’intera vicenda avrà sul voto di domani e probabilmente su quelli futuri. Quanto accade serve solo a portare nuovi mattoni al monumento dell’antipolitica: un altro regalo, involontario e per questo ancora più stupefacente, ai teorici dell’astensionismo e ai campioni del populismo; e, per paradosso, proprio agli «impresentabili».