L’appuntamento Parte oggi a Milano «E se domani», un ciclo di incontri organizzati dalla Fondazione Feltrinelli con Eni che toccherà anche Napoli, Roma, Genova e Taranto. Tra i testimoni, un giovane scrittore
di Rocco Civitarese
Ho costruito il mio spazio protetto
per cercare meglio le relazioni
In senso buono o in senso cattivo, la solitudine è uno spazio. In esso ci si muove, se si parla della solitudine buona, o si resta fermi, l’altra. Mi è capitato spesso di ritrovarmi in questo spazio. E di correre avanti e indietro a proteggerne i confini, o di accovacciarmici al centro.
La ruota delle amicizie è governata dal caso e da una strana geometria. Nelle mie stesse scuole, ma in classi diverse, c’erano già quelli che al liceo sarebbero diventati i miei migliori amici. Abbiamo seguito dei percorsi paralleli, simili ma autonomi, fino a stringere i legami più forti che abbiamo mai avuto.
Credo che la parola usata per descrivere la fine di un legame — l’amicizia si «rompe», si «spezza» —, ci sveli molto sul modo in cui l’amicizia si forma. Un’amicizia si «costruisce». Proprio come la costruzione di un palazzo, ci sono inverni di immobilità e lavori frenetici. Protocolli da rispettare e supervisori. Ma se la fine è una rottura e basta, dobbiamo ricordarci che, oltre alla costruzione, l’inizio di un’amicizia si spiega anche con un’altra formula: «un’amicizia nasce». Con la nascita emerge il suo carattere fortuito, imprevedibile, di desiderio e di attesa.
Durante le medie, ho lanciato angurie contro zombie, addestrato cavalieri, memorizzato labirinti, costruito piscine, formato famiglie, sparato con laser, consumato giga di memoria su un arsenale di dispositivi elettronici, consumato ore della notte e del pomeriggio. Mentre io rimanevo intontito sul divano, i miei avatar scorrazzavano tra basi aliene, praterie, villaggi, morivano e resuscitavano, uccidevano e, sotto i miei comandi, si innamoravano. Questa ostinazione quadrata, assorbente (quando si gioca, per il tuo avatar, è questione di vita o di morte — non è permesso un istante di distrazione), è la risposta più accessibile, ma sterile, alla solitudine. È abbastanza uno spreco di tempo — abbastanza perché i giochi al cellulare sono stati ottimi argomenti di conversazione e, comunque, abbastanza spassosi —, e come ho notato su me stesso e su altri coetanei, un abbrutimento: si diventa più scontrosi.
«Preferisco che giochi al computer, piuttosto che stia tutto il giorno davanti alla televisione. Almeno fai qualcosa di interattivo» (mio padre). «Preferisco che guardi la tv, piuttosto che stia attaccato a quell’affare a fare ta ta ta». «Preferisco che ti annoi, piuttosto che giochi al cellulare» (mia mamma). La terza frase mi si è appiccicata addosso. Da quando la noia è qualcosa di buono? Da quando guardare il soffitto è meglio di assortire orde di soldati? Di fronte alla sensazione potente che mi riempiva il petto quando guardavo alla noia da quel nuovo punto di vista, queste domande erano flebili e trascurabili.
I primi due anni di liceo sono trascorsi simili alle medie. Verifiche di vocaboli, brufoli e noia. Aspiravo alle vacanze come alla salvezza. Finché un gennaio, al culmine di un apprendimento durato tutta la vita, imparai a gioire della solitudine. Sono sempre stato un tipo creativo, ma da quel gennaio diedi una dignità alla mia immaginazione, le regalai il mio tempo, le ricavai uno spazio protetto. Cominciai a scrivere i miei primi racconti.
In compagnia
Da quando scrivo decine di personaggi danno un senso a parti di me che non riuscivo a esprimere
In apparenza tutto uguale: io sdraiato sul letto. Ma un soldato che si muove su uno schermo attiva un numero esiguo di neuroni. Invece ora, nella mia testa c’erano decine di personaggi complessi, vestiti a mia scelta. Finalmente davano un senso a parti di me che non riuscivo a esprimere. Non solo correvano in un deserto scappando o inseguendo, ma si tuffavano, facevano capriole, pedalavano, si baciavano.
È il modo casuale in cui nascono i legami forti, la loro rarità, che ci costringe a imparare a vivere la solitudine in modo fertile. È la sfortuna di accostarsi a testuggini di ragazzi amici dall’asilo. È l’ignoranza totale di come si chiede a una ragazza di uscire. O la sporadicità con cui i brufoli decidono di buona leva di colonizzare una guancia, traslocare sulla fronte, fare i bagagli e poi scegliere di non partire — si sta bene sul naso.
D’accordo, ma invece di imparare a stare da soli, non sarebbe meglio imparare a stringere amicizia più facilmente, alzare le probabilità di trovare qualcuno? È difficile intervenire sul proprio carattere, trasformarsi in una persona più estroversa. Un po’ ci si può allenare al coraggio, ma la solitudine «buona» ci offre la possibilità di essere noi stessi. Più semplice di diventare professionisti delle relazioni è imparare a usare la solitudine per essere sempre più sereni, per stare bene. Chi vuole come amico una persona nervosa che si illumina solo davanti a uno schermo? Quale ragazza ballerebbe con chi in discoteca è triste e non sorride mai? Stare bene (e quindi essere consiglieri lucidi, pettegoli più perfidi, sportivi più concentrati, ballerini più orsi e meno scope), ci rende i candidati ideali per chi come noi ricerca affetto e un’intesa.
Mi è stato insegnato anche ad annoiarmi, a tollerare quando si è soli. Ogni momento morto può essere messo a frutto. Tra un esame e l’altro, mi capita ora di muovere una caccia spietata alla solitudine buona. E mi accorgo che le persone intorno a me, silenziosamente, fanno lo stesso: si ritirano con la propria serie tv, un giallo, davanti a un pianoforte.
Come la si insegna e come la si impara, è dura. Immagino sia una somma di esempio, tenerezza e «requisito!».