Mussolini da rosso a nero

Novecento Il volume di Antonio Carioti (Solferino) racconta come si giunse alla marcia su Roma

L’ascesa dell’ex socialista che fondò il fascismo. Un intreccio vincente di demagogia e violenza.

 

di Dino Messina

 

L’Alba nera del fascismo, che dà il titolo al bel volume di Antonio Carioti (Solferino) con prefazione di Sergio Romano, presenta in realtà forti striature di rosso. A cominciare dalle origini famigliari e dai primi passi politici del futuro Duce.

Fedele al credo socialista del padre Alessandro, fabbro a Dovia di Predappio, Benito Mussolini si affina nelle frequentazioni giovanili in Svizzera dell’esule russa Angelica Balabanoff, per seguire una carriera di militante che, dalla direzione di fogli di provincia e dalla collaborazione al periodico «La Folla» di Paolo Valera, lo porterà nel 1912 alla guida dell’«Avanti!». Un biennio di militanza intensa che si concluderà a fine ottobre 1914 sotto la spinta dei cambiamenti portati dalla guerra mondiale.

Il suo ultimo articolo, che lo distacca dal neutralismo socialista, si intitola Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. È il salto verso l’interventismo e verso la direzione del «Popolo d’Italia», fondato il 15 novembre 1914. La guerra trasformerà l’Europa. E anche Mussolini non sarà lo stesso: il 15 dicembre 1917 pubblica il fondo Trincerocrazia, che «candida i reduci a classe dirigente del domani, forgiata dalla prova delle armi». E il 10 novembre dell’anno successivo, dopo Vittorio Veneto, così il futuro Duce arringa gli arditi in piazza Cinque Giornate a Milano: «Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia».

Sembra l’atto conclusivo del passaggio al nazionalismo e alla destra più retriva. Invece non è così: il programma della riunione che è l’atto iniziale del fascismo, l’assemblea di piazza San Sepolcro a Milano del 23 marzo 1919, oltre a esaltare la guerra, il nazionalismo e l’antibolscevismo, prevede il voto ai diciottenni e alle donne, l’abolizione del Senato di nomina regia, la compartecipazione dei dipendenti nella gestione delle industrie, un prelievo fiscale sui grandi capitali, la nazionalizzazione delle fabbriche d’armi.

Si rimane stupiti anche a leggere l’elenco dei partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro: oltre ai figuri che si macchieranno cinque anni dopo dell’uccisione di Giacomo Matteotti, a intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti, a esponenti degli arditi e a futuri dirigenti del Pnf, troviamo personaggi inattesi come Ernesto Rossi, il futuro antifascista di Giustizia e Libertà (che aderì da Firenze, ma non fu presente a Milano), ebrei come Piero Jacchia, Riccardo Luzzatto ed Eucardio Momigliano.

Il paradosso

Tra i primi aderenti

al movimento del Duce

anche ebrei, massoni

e futuri antifascisti

C’è da aggiungere inoltre che San Sepolcro, tanto mitizzato ex post dal regime, è un episodio passato quasi in sordina in quel tumultuoso 1919, che vede al centro dell’attenzione il trattato di pace (con i dolori italiani per «la vittoria mutilata») e l’impresa a Fiume di Gabriele d’Annunzio.

Il racconto di Carioti, che analizza i fatti dal 23 marzo 1919 al 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma, è avvincente e non è mai scontato. La narrazione, per chi vuole immergersi completamente nell’atmosfera dell’epoca, rimanda nei punti cruciali a un’appendice con i documenti e gli articoli del periodo, tanti firmati da Mussolini, che a detta dei seguaci, ma anche di molti avversari, fu un genio della comunicazione.

Dopo il racconto dei fatti, le interviste agli storici Simona Colarizi, Alessandra Tarquini, Fabio Fabbri e al politologo Marco Tarchi, offrono un quadro delle interpretazioni sui nodi storici del fascismo, come la questione dei ceti medi, le connivenze dello Stato con la violenza squadrista, le differenze con il nazismo e le composite origini culturali riassunte da Zeev Sternhell, lo studioso israeliano che ha influenzato il nostro Renzo De Felice, nello slogan «né destra né sinistra».

Nella lunga crisi di un dopoguerra che vede impoverirsi le classi popolari e aumentare le insicurezze dei ceti medi, il fascismo alimenta le violenze con gli attacchi alle sedi dei giornali e delle organizzazioni dei lavoratori protagonisti del «biennio rosso». I vari ras delle province, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, si mettono alla testa della reazione violenta, interpretando la voglia di rivincita dei possidenti agrari e giocando con le insicurezze del ceto medio urbano. Nello stesso tempo, dopo aver seminato odio e morte, il movimento fascista si presenta come garante dell’ordine. Una veste di normalizzatore che inganna agli inizi anche liberali come Luigi Albertini e Benedetto Croce.

Mussolini è abile nell’incanalare politicamente la violenza. Un gioco che gli riesce anche grazie alle incertezze della vecchia classe politica e alla codardia del monarca, che non firma il decreto sullo stato d’assedio presentatogli da Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922. Gli squadristi della marcia su Roma, che potevano essere facilmente dispersi, hanno vinto. Mussolini il 30 ottobre riceve l’incarico di formare il governo.

 

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