Siena cede 24 miliardi di Npl, spinge sui crediti incagliati. Poi punta alla fusione: candidati Ubi, Banco-Bpm e Bper
ANDREA GRECO,
MILANO
Il ministro del Tesoro Giovanni Tria, giovedì all’Ecofin, ha virtualmente aperto il dossier Mps, dando le direttrici del nuovo governo- azionista (al 68% dopo l’aumento precauzionale da 5,4 miliardi un anno fa). L’ha fatto con paletti che delimitano linee di azione in continuità con il governo Gentiloni e con gli accordi presi con la Commissione Ue sugli aiuti di Stato: « Mps deve seguire il mandato e rimanere fuori dal perimetro pubblico, penso sia più efficiente, anche per la finanza pubblica. Ci sono un settore pubblico e uno privato».
Tria non è in sincrono con le esternazioni di esponenti di Lega e M5S, che da mesi chiedono la testa dei manager e di tenere pubblico il Monte, magari in asse con Cdp come “ banca di sistema”. Ma è ciò che l’Italia ha promesso a Bruxelles: riprivatizzare Mps entro il 2021, indicando l’exit strategy nel 2019. Se il ministro farà rispettare gli steccati, è probabile che al suo primo incontro con i vertici Mps presto – si troverà a condividere anche la strada tratteggiata da istituzioni ( Ue, Bce) e attori ( banchieri, investitori, consulenti): la fusione in carta con una banca italiana, per ottenere sinergie fino a 3 miliardi, creare il terzo polo nazionale e giocare – ha aggiunto Tria – «un ruolo molto importante per il rilancio degli investimenti a cui il governo tiene molto».
Solo tre, si ragiona tra Siena e Roma, sono le candidate possibili. La più seria appare Ubi. L’ad Victor Massiah già provò, due anni fa, a scalare il Monte: fu fermato dai soci bergamaschi, tuttora poco propensi ma meno forti oggi. Ubi è stata così scavalcata per taglia dalle rivali Banco e Bpm, fuse tra loro. Proprio i cantieri aperti tra Verona e Milano, specie nello smaltimento cattivi crediti, rendono più difficile un rapido bis con Mps: ma l’ad Giuseppe Castagna non fa mistero della ricerca di modi per crescere ancora. La terza candidata per Siena può essere Bper, ex popolare modenese che ha soci ambiziosi a partire da Unipol, ora al 14,2% e avviata verso il 20%. Ma Bper vale in Borsa 2,2 miliardi: troppo piccola, anche se messa insieme a Unipol Banca, per inglobare Mps e al contempo diluire significativamente lo Stato. Mentre fondere Mps con Ubi o con Banco Bpm, che valgono circa 4 miliardi, porterebbe il Tesoro sotto il 20%. E’ un calo più che proporzionale perché i tecnici della finanza stimano una ricapitalizzazione sul mercato di almeno 2 miliardi per terminare la pulizia del Monte: sia nei crediti sia del contenzioso. Sul primo fronte, a ore arriveranno le garanzie statali sulla cartolarizzazione di sofferenze Mps per 24 miliardi ( la più grande d’Europa), che così saranno deconsolidate; in più il management studia una stretta ai crediti incagliati ( Utp): ne ha per 7 miliardi e anziché cederne 1,5 quest’anno, come da obiettivi, potrebbe anticipare la cessione di parte dei 2 miliardi previsti nel 2019. Poi c’è il rischio legale: una zeppa da 4,5 miliardi nel bilancio Mps frutto del passato, che nessun banchiere o privato comprerà. Per sciogliere il nodo il governo – sulla falsariga di quanto detto da Claudio Borghi (Lega) e Carlo Sibilia (M5s), potrebbe valutare transazioni per chi ha intentato cause, e d’altro lato rifarsi con l’azione di responsabilità contro i manager fino al 2015 – a processo il 17 luglio – e le controparti dei derivati Deutsche Bank e Nomura. All’ultima assemblea il governo (Gentiloni) rifiutò di far votare una proposta di azione per danni da 11 miliardi. Il percorso è stretto: e in Borsa Mps è tornata sui minimi a 2,54 euro (- 2,9% ieri), pari a 3,6 miliardi di minusvalenza per lo Stato. L’alternativa della banca pubblica è però impercorribile, anche stando alle frasi di Tria, per gli effetti di finanza pubblica, i rapporti con gli investitori e l’avvio della procedura di infrazione dell’Ue.