Mio papà Tarkovskij un uomo di preghiera

 

 

«Un artista si nutre della propria infanzia per tutta la vita, da come è stata la sua infanzia dipenderà la natura della sua arte». La voce che sentiamo è quella del regista russo Andrej Tarkovskij (Zavraž’e, 1932 – Parigi, 1986). Le immagini in bianco e nero lo ritraggono bambino e poi adulto affacciato a una finestra. Si apre così il film documentario che il figlio Andrej Andreevic Tarkovskij ha dedicato a suo padre: Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera. «È stato scritto tanto su mio padre. Ho voluto mettere in prima linea quello che pensava», racconta Andrej A. Tarkovskij a «la Lettura»: «Volevo offrire la possibilità di ascoltare nuovamente la sua riflessione sull’arte come servizio. E poi ero spinto da una necessità personale: i ricordi iniziavano ad affievolirsi, volevo riconnettermi con il suo mondo, il suo pensiero. E per farlo ho lasciato a lui la parola».

Il risultato è un «monologo» che Andrej A. Tarkovskij ha costruito a partire dai video di interviste e conferenze, da «oltre 900 ore di registrazioni audio conservate negli archivi dell’Istituto internazionale Tarkovskij che ha sede a Firenze e che dirigo». Andrej A. Tarkovskij aveva 16 anni quando il padre morì il 29 dicembre 1986, dopo avere lasciato la Russia: «Le riflessioni che da ragazzo sentivo ogni giorno riascoltate assumono oggi una valenza nuova».

Per raccontare suo padre, Andrej A. lascia che il regista parli della sua infanzia e del suo stesso padre, il poeta Arsenij Tarkovskij (1907-1989): «La sua poesia, la sua visione della poesia, della letteratura e dell’arte russe hanno esercitato un’enorme influenza su di me. Però si tratta di una dipendenza inconsapevole. Mi sento molto più legato a mia madre», rifletteva il regista. E il figlio oggi aggiunge: «Senza la poesia di Arsenij non ci sarebbe stato il cinema di Andrej. Anche se fu un legame sofferto perché Arsenij lasciò la loro casa e fu la madre a sacrificarsi per la sua crescita culturale».

Il documentario è scandito in otto capitoli che si intrecciano con i film del regista. «Questo è un film su mio padre, non sul suo cinema. L’idea era quella di poter (ri)vedere il mondo attraverso i suoi occhi, il suo pensiero. Ma la sua vita è strettamente legata ai suoi film, tutti almeno in parte autobiografici». Scorrono sullo schermo uno dopo l’altro, accompagnati dalle parole del loro autore. Gli esordi, L’infanzia di Ivan (1962), Leone d’Oro a Venezia, che nelle tracce del film sovietico introduce elementi di forte lirismo. Poi Andrej Rublëv, dramma su un pittore di icone del XV secolo, ancora più lirico e personale, proiettato a Cannes nel 1969 e solo successivamente distribuito in Urss. Solaris (1972) accolto come la risposta sovietica a 2001: Odissea nello spazio. Poi Lo specchio (1974), poetico montaggio di ricordi d’infanzia, immagini documentarie e fantastiche. Il film, considerato troppo elitario, contribuì a inasprire l’ostilità delle autorità sovietiche, che ne penalizzarono la distribuzione. Stalker (1979), spedizione allegorica in un luogo misterioso. E ancora Nostalghia (1983), girato in Italia con la collaborazione di Tonino Guerra. La decisione di non tornare in Urss. Le produzioni teatrali e Sacrificio (1986) girato in Svezia, Grand prix speciale della giuria a Cannes.

Tarkovskij nel film parla della decisione di lasciare la Russia: «Fu inaspettata e piuttosto terribile, per la prima volta capii che le autorità del cinema sovietico non mi consideravano un regista sovietico, perché avevano inviato a Cannes un membro della giuria il cui scopo era demolire il mio successo… Ancora non capisco il motivo. Avevo realizzato Nostalghia per raccontare l’impossibilità per un regista sovietico, russo, di vivere in Occidente. Mi sarei aspettato qualsiasi cosa; la solita, tradizionale incomprensione del mio linguaggio cinematografico o di qualche aspetto estetico, ma non mi aspettavo dalle mie autorità, dai miei conterranei, dai miei superiori un tale infido colpo alle spalle». Il figlio ricostruisce a «la Lettura» quello che avvenne in quegli anni: «Mio padre partì nel marzo del 1982 per girare Nostalghia e poi decise di non tornare. Ci siamo rivisti solo nel 1986; mi tenevano in Urss per farlo tornare. Poi, quando mio padre si è ammalato, Mitterrand ha scritto un telegramma a Gorbaciov e ci siamo rivisti, ho potuto trascorrere con lui ancora un anno, tra Parigi e l’Italia, prima della sua morte». Da allora Andrej A. vive a Firenze: «È la città in cui avrebbe voluto vivere e creare un’accademia del cinema dove insegnare il suo modo di vedere l’arte». In Russia ritorna spesso: «Sono rientrato nel 1996 per la prima volta. Poi lì mi porta il lavoro sull’archivio iniziato con mia madre e sulla casa museo in campagna».

Andrej Tarkovskij non amava i commenti dei critici. In difesa dell’Infanzia di Ivan intervenne Sartre: «So che il film fu bene accolto, ma secondo me non fu capito dai critici. Tentarono tutti di studiarne la storia. In realtà era semplicemente la creazione giovanile di un regista agli esordi. Un lavoro poetico che andava esaminato dal punto di vista dell’autore. Sartre lo difese da un punto di vista filosofico, ma per me non fu una difesa perché dovevo essere difeso da un punto di vista artistico, perché non sono un filosofo, sono un artista…». Sui dibattiti suscitati da Lo specchio diceva: «I critici come al solito non avevano capito nulla». Ascoltava invece gli spettatori, come la donna delle pulizie che alla fine di una proiezione aveva interrotto la discussione: «È molto semplice: un uomo si è ammalato, gravemente, ha avuto paura di morire e ha ricordato tutte le cose terribili che ha fatto agli altri e ha voluto scusarsi». Conservava le numerose lettere (come lui stesso ha raccontato nel celebre saggio Scolpire il tempo), talvolta di protesta per la difficoltà di capire i suoi film, spesso di ammirazione. «Gli archivi raccolgono oltre duemila lettere», continua Andrej A.: «Gli servivano anche per dimostrare alle autorità sovietiche che i suoi film non erano così elitari come sostenevano». Il cinema di Tarkovskij continua a suscitare ammirazione, reazioni. «Le proiezioni, anche del mio film (che sta presentando in varie città, ndr), sono sempre gremite, ci sono tanti giovani. Sul suo archivio si possono ancora realizzare tante cose: provo a farlo con un approccio artistico».

Nel risentire le registrazioni il figlio ha scoperto qualcosa di nuovo sul padre? «Il suo pensiero, il suo percepire il cinema come mezzo di conoscenza sono da sempre molto chiari. Ma ci sono due interviste rilasciate nell’arco di 15 anni in cui emerge con molta chiarezza la sua profonda fede, sempre presente, ma mai esplicitata in questo modo». Riecheggia la voce di Andrej Tarkovskij: «L’arte è uno dei gesti più disinteressati dell’umanità. Il significato dell’arte è una preghiera, è la mia preghiera».

Andrej Tarkovskij «è stato fino alla fine un uomo di ricerca». Nel film si sente: «Ora nella mia mente sono rimasti solo quelli che non definisco solo maestri, ma folli di Dio, persone fuori da questo mondo… Bresson, Tolstoj, Bach, Leonardo… È impossibile spiegare la loro arte. È stato scritto molto di loro ma grazie a Dio nessuno è riuscito a scrivere qualcosa di sensato. È impossibile farlo. Il miracolo non si può decifrare». Il figlio riflette: «È strano ora per me parlare di lui. Il mio è sempre un filtro. Per questo nel film ho voluto che fosse lui a parlare. Perché il desiderio di tutti è incontrare l’artista; il mio è di incontrare di nuovo mio padre. Ora grazie a queste registrazioni e alla tecnologia possiamo farlo».

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