Mino Maccari, l’irriverente

Libri Dai furori giovanili alle speranze ingannate dalla Storia: nella prima monografia di Francesco Maria Pistoia un labirinto di tumultuosa creatività. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione

 

La scrittura di Mino Maccari (1898-1989) non si fregia di indugianti riboboli e schiva ogni enfasi propagandistica. Ha un nitore che lo apparenta ad un’essenziale ma non manierata misura toscana. Le sue brevi poesiole, anche quando evidenti sono i debiti dannunziani o, più ancora, carducciani e talvolta velati di ironia, hanno un’intonazione da cantilena, un fiato da filastrocca o da nenia sillabata al focolare. Sono composte privilegiando una «dimensione orale dell’esercizio poetico». Aforismi come proverbi. Inappellabili sentenze condensate con sveltezza epigrammatica. E numerose sono quelle nelle quali rimpianto e nostalgia si mischiano con il sotteso invito ad una lettura che ne rovesci il dettato. Trascrivo un abbozzo in fattura — due novenari e due ottonari — traendolo dal Diario che Francesco Maria Pistoia ha avuto la fortuna di sfogliare per ripercorrere intero il frastagliato e lungo viaggio di Mino Maccari senese spavaldo (Effigi, Arcidosso 2022). Avvalendosi anche di materiali inediti e dando particolare risalto alla dimensione di scrittore animato di uno spiritaccio classico, irriverente e sfrenato. Maccari riassume il candido sogno di un’avventura fingendosi vittorioso in una svolta che seguì una parabola del tutto opposta a quella immaginata: «Alla Torre del bel Certaldo/ritornando vo’ raccontare/come un senese spavaldo/Fece la storia svoltare».

Si è sostenuto che lo Strapaese mitizzato da Mino Maccari non era un edenico idillio, ma sprigionava una profetizzante critica alle insidie del modernismo razionalista teorizzando alla buona una società dal cuore antico. Da ultimo Francesco Giubilei in un’estesa ricerca concepita per tracciare una genealogia della cultura italiana della destra conservatrice ( Strapaese , Odoya, Bologna 2021) colloca l’utopia di Orco Bisorco nella linea del ruralismo fascista, così spiegata da Maccari all’altezza del 1927: «Amare le terra e il paese, custodire le tradizioni, non significa impoltrirsi e impiccinirsi entro insormontabili confini, ma trovare, gustare e selezionare gli elementi di cui necessariamente si compone la nostra personalità per portarli con le opere a una vita attuale».

A ben vedere siamo davanti a una dichiarazione di poetica, non in una sorta di anticipatissimo ecologismo politically correct . Nella tarda età la sua rivolta di selvaggio abbarbicato ad un piccolo universo aggredito si traduce nello scettico sguardo di chi non sta al gioco ma sa di non potere rovesciare il tavolo. Il beffardo antiamericanismo si sposa alla perfezione con il moralismo dei radicali del «Mondo» pannunziano, approdo ultimo di una navigazione funestata da fortunali e ventacci. Il turismo di massa accende una critica ai costumi che stempera gli «astratti furori» giovanili. Lo scontroso provinciale si mimetizza da snob portando il monocolo e esibendo la paglietta. Non rinunciando, in cuor suo, a quella vena di furibondo vitalismo che aveva segnato per sempre il suo estro di artista e le sue lotte. Nel suo allusivo bestiario non deprecò la scomparsa delle lucciole ma la sconfitta dei cinghiali. Maccari era stato anche un generoso talent scout, un organizzatore di cultura dal mirabile fiuto e i dialoghi che preferiva, talvolta immaginari, li intrecciava ancora con gli amici più cari incontrati lungo la strada della sua Toscana non fiorentinocentrica e dell’Italia elegantemente provinciale: Romano Bilenchi, Arrigo Benedetti, Indro Montanelli, l’umbro Amerigo Bartoli, il romagnolo Leo Longanesi. Se non fosse una dilagante categoria acchiappa tutto, non sarebbe azzardato attribuirgli una forma di ilare e angosciato nihilismo, mai chiuso in uno sbalordito silenzio. «Tutto è caricatura» nella sua grottesca comédie humaine . Basterà scorrere gli aforismi in lavorazione del Diario pieno di lampi e frammenti da tornire e fermarsi a meditare su qualche lancinante massima da tenere a memoria: «La vita è segno». Paolo Cesarini, sodale tenace di Mino, in una lettera del 20 agosto 1978 a commento di una mia recensione al suo citatissimo Italiani cacciate il tiranno ovvero Maccari e dintorni : «A questo punto dirti la mia gratitudine credo sia oramai superfluo. Ma ti aggiungerò che il giudizio che ne hai dato accresce in me il compiacimento che già, diversamente da altri miei lavori, mi era nato leggendolo stampato. Sono indecentemente orgoglioso di averlo scritto; tanto per rimanere nella tua definizione: ‘incapace di non dirsi la verità in faccia’». Anche Mino Maccari fu «incapace di non dirsi la verità in faccia». «Io amo un’Italia impossibile» (1977) ha la risolutezza di una sconfortata conclusione.

In data 22 marzo 1976 scrive: «Fu tradito il povero Duce / Fu tradito il bravo Stalin/ Al tradimento conduce/Il politico cammin». Una decina d’anni prima aveva sintetizzato in quattro versetti da sistemare: «Tradii a suo tempo/ il Fascismo. Mi sembra/ giunta l’ora di tradire/anche l’Antifascismo». Si sentiva tradito, ingannato, travolto da un’ imperdonabile ingenuità. La sorgente della sua arte è la stessa che lo convinse ad abbracciare in politica sentieri senza sbocco. Sgorgava da un’etica ribalda e onesta. Lo rattristò la consapevolezza di esser stato ingannato nelle ardite speranze coltivate nel corso della guerra civile europea divampata nel Novecento. Si credeva che le fiamme si fossero spente. Invece, altro che secolo breve!

 

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