di Paola Palminiello
1. Nel mese di maggio di quest’anno, pochi giorni dopo l’inizio della cosiddetta Fase 2, Goffredo Fofi ha pubblicato un breve articolo su Avvenire in cui torna sulle regole stabilite dal governo per il periodo del lockdown per proporre una condanna senza appello delle persone che, diversamente da quanto ha fatto Fofi stesso, non si sono limitate a seguire quelle regole “necessarie e comuni”, ma, “attentissime”, si sono messe a controllare gli altri, pronte “a rimproverarti aspramente se parti con il piede sinistro invece che con quello destro”. Questa è la mia risposta.
2. Fofi spiega di non aver apprezzato “i pochi cittadini spavaldi, non rispettosi di queste regole”, ma di amare altrettanto poco quelli “zelanti”, e per ragioni molto serie. Tali persone – questa la tesi di Fofi – rimprovererebbero infatti i trasgressori delle regole non per “senso civico”, come forse direbbe un legalista, bensì per “voluttà di sentirsi importanti, seppure nel piccolo, nel minimo”, per “sentirsi qualcuno”. Rimproverando gli altri in nome di quanto stabilito dalle autorità, esse troverebbero un modo, seppure appunto piccolo o minimo, per riscattarsi dalla condizione di persone “che normalmente non hanno molto potere né molta autonomia” e “frustrate” dalla “società massificata” in cui viviamo. “Costoro hanno imparato immediatamente le quattro regole raccomandate dalla TV e a misurare a occhio per esempio la distanza tra persone, pronti a redarguirti se era di 10 centimetri minore, se avevi la mascherina abbassata, se la fila non era ordinata… Più attenti loro dei poliziotti, e assumendosi il ruolo di quelli, sostituendoli”.
Fingendo di anticipare una possibile “intercessione” dei suoi lettori, che immagina comunque concordi con lui su questa diagnosi di base, conviene con loro che, sì, si tratta di persone vittime della società, come avrebbero dimostrato alcune autorevoli teorie sociologiche (le ricerche della scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, la teoria di Riesman sulla folla solitaria e la teoria della ribellione delle masse di Ortega Y Gasset). E tuttavia Fofi è persuaso sia necessario ugualmente stare in guardia: infatti “cosa avrebbero fatto e detto quelli come loro [gli zelanti] in una società più autoritaria della nostra”? L’idea di Fofi è che il desiderio di “sentirsi qualcuno” stia alla base anche del fenomeno della delazione esploso nella Francia occupata dai nazisti, e in Italia delle denunce degli ebrei al tempo delle leggi razziali o dei sospetti di antifascismo o resistenza. “A una grande maggioranza di silenziosi, a loro modo dissidenti, a un’infima minoranza di ribelli, c’era da aggiungere una minoranza non tanto piccola di zelanti, rispettosi delle leggi del momento, del potere del momento […] Dagli zelanti bisognerebbe guardarsi, oggi e domani”.
3. Alcune di queste tesi appaiono decisamente radicali se non persino spinte. Lo è per esempio l’idea che protestare per il mancato rispetto di una regola sia riprovevole sempre, anche quando la regola in questione è di chiara e immediata utilità, com’erano appunto – lo dice come si è visto lo stesso Fofi – quelle istituite per il contenimento del contagio da SARS-CoV-2. Forse alcuni di noi direbbero che richiamare chi in una epidemia si comporta in modo imprudente o chi inizia a spingere quando in moltissimi ci si trova a passare per un varco stretto non è come protestare con chi ha buttato il mozzicone di sigaretta per strada o ha lasciato aperto il portone del palazzo. Ma ovviamente se l’idea è che a spingere a protestare è sempre il desiderio di sentirsi importanti, una regola vale l’altra. Lascia un po’ perplessi poi naturalmente il parallelo tra le proteste nei confronti di chi per esempio non rispetta la regola del distanziamento sociale e chi nell’Italia fascista ha denunciato vicini ebrei. Questo parallelo e l’interpretazione delle proteste in termini di voluttà di sentirsi importanti riposano entrambi, in terzo luogo, su una concezione del potere che lo vuole interamente al di fuori e al di sopra della società e lo elegge a fonte unica di leggi e regole, come se queste ultime non fossero mai, neppure nella nostra meno autoritaria società, riflesso di esigenze dei cittadini (o di gruppi di questi), ma sempre emanazioni di quello[1]. Di qui forse anche l’idea che i cittadini non abbiano altro modo per capire cosa è meglio fare che farselo dire dalla TV. Chi nelle leggi e regole riconosce al contrario anche il riflesso di domande che salgono dal basso, anziché solo il risultato di comandi che discendono dall’alto, può vedere nelle proteste anche un modo (certo non sempre molto efficace) per richiamare i trasgressori a fare attenzione agli effetti che il loro comportamento produce sugli altri. Davvero a Fofi non è mai capitato di protestare, o pensare di farlo, con chi in treno parla al telefono a voce troppo alta o in macchina non si ferma per lasciar passare i pedoni nemmeno se piove a dirotto? E infine questo potere è al tempo stesso sia straordinariamente desiderabile (pur di averne un po’ gli zelanti giungono a fare cose secondo Fofi umanamente inconcepibili, come denunciare gli ebrei), sia assolutamente negativo: si salva solo la piccola minoranza dei ribelli e disobbedienti che gli resistono. Verrebbe però da chiedere a Fofi di che vivano questi ribelli e disobbedienti. Dopo tutto non è questo potere a garantire che le istituzioni della nostra società (certo non tutte del tipo che vorremmo) in qualche modo funzionino a beneficio anche loro?
4. È un fatto però che in Italia chi protesta contro i trasgressori di una regola non suscita in genere molta simpatia: l’avversione cui Fofi ha dato voce credo incontri il consenso di molti, sebbene forse per più tipi di ragioni. Ma la sua spiegazione ha anche due altri punti di forza. La tesi secondo cui molte delle persone nell’impossibilità di accedere alle sfere del vero potere sono indotte dal desiderio di averne un po’ a comportarsi come suoi solerti difensori, servitori o portavoce fa parte, credo, del nostro senso comune. Non dice questo la storia del bidello che con un cappello a visiera si sente capostazione? Nella forma appena un po’ più elaborata della teoria del riscatto dalla frustrazione (il modello è comunque quello idraulico della pressione con il successivo deflusso) entra in molte spiegazioni del sostegno al fascismo. C’è poi da osservare che, nel richiamare qualcuno che non ha rispettato una regola, si parla a nome di una norma introdotta o sancita dal potere costituito e dunque a rigore ufficialmente “giusta”, contro qualcuno che, data questa norma, è indubbiamente dalla parte del torto, e lo si può fare legittimamente – per via appunto della giustezza della norma e della colpevolezza del trasgressore – con una certa aggressività. Non è una situazione in cui è davvero possibile “sentirsi qualcuno”?
5. La risposta però è negativa. Se il mio obiettivo (cosciente) nel rimproverare il trasgressore di una regola è sentirmi qualcuno, se per me la trasgressione di quella regola è in sé stessa priva di importanza e protesto soltanto per potermi considerare autorevole, mancherò inevitabilmente il bersaglio[2]. Lo stesso tentativo di sentirmi in questo modo mi ricorderà che non lo sono, proprio come accade a chi cerca di convincersi che una certa credenza è vera, di avere fiducia in sé stesso, o che rivendica la propria dignità[3]. Il punto è però che la condizione di sentirsi qualcuno non può prodursi neppure come effetto secondario[4] (non cercato) di una protesta che si pronuncia non appunto per sentirsi qualcuno, ma semplicemente perché si considera grave che non si rispetti quella regola, o perché farlo significa mettere a rischio la nostra vita (come può fare chi non porta la mascherina o passa con il rosso) o comunque danneggiarci in altri modi (come fa chi non raccoglie la cacca del suo cane), o magari perché a chiedere il rispetto di quella regola è il potere costituito. E non può farlo precisamente perché, se si protesta, è perché si è avuto la peggio, ossia perché qualcuno si è preso la libertà di violare regole da cui dipende il nostro destino, o ha ignorato il potere costituito che le ha emanate. Diversamente da quel che pensa Fofi, un cittadino non può sostituirsi ai poliziotti: mentre questi ultimi hanno il diritto, anzi il compito, di punire i trasgressori, i semplici cittadini possono solo protestare e per il resto subire. Quando non lo fanno, quando alle proteste preferiscono qualche sanzione informale (insulti, botte ecc.), è perché di fatto hanno il potere per farlo[5], non perché vogliono averlo.
(Si può osservare che neppure la delazione e la denuncia di ebrei, antifascisti e partigiani possono essere modi per sentirsi importanti. La prima non può esserlo per la semplice ragione che per scelta dell’autore (dettata con ogni probabilità dalla paura) è per l’appunto segreta, ossia chiusa nella dimensione privata. Il delatore può avere la meglio su un vicino o un conoscente che invidia o considera superiore, ma la sua soddisfazione è puramente privata; nessuno può convalidare dall’esterno il suo trionfo. Quanto alle denunce di ebrei, antifascisti o partigiani, i casi sono quattro. Chi è persuaso che gli ebrei, gli antifascisti ecc. siano da combattere, denunciandoli agisce coerentemente con le proprie credenze e può sentirsi qualcuno semplicemente perché le leggi razziali e di pubblica sicurezza gli conferiscono il potere di avere la meglio sui suoi avversari. Per l’idea che, pur non considerando gli ebrei, gli antifascisti ecc. pericolosi, li si possa denunciare al solo scopo di sentirsi importanti vale quanto già detto qui sopra per le proteste contro i trasgressori delle regole. Poiché decidere di credere in qualcosa in cui non si crede è impossibile, è escluso anche che ci si possa convincere della pericolosità degli ebrei, antifascisti ecc. per poi godere di un certo potere denunciandoli. Resta l’ipotesi che ci si possa persuadere della pericolosità degli ebrei, dei partigiani ecc. in modo inconscio, autoingannandosi. L’esistenza del fenomeno dell’autoinganno è dubbia, ma se autoingannarsi è davvero possibile, allora perché non farlo direttamente per sentirsi importanti?)
6. Questo peraltro non è il solo errore metodologico commesso da Fofi. Qui ne voglio sottolineare solo un altro. Come tendiamo a fare nella vita di tutti i giorni ma dovremmo evitare in quanto studiosi, Fofi presenta le convinzioni sue e dei suoi alleati come fondate su prove solide e su nobili e meditati ideali e le azioni sue e dei suoi simili giustificate da queste convinzioni, ma suppone che i suoi avversari (oggi la minoranza “non tanto piccola” degli zelanti, in passato i fascisti e nazisti) siano indotti a coltivare credenze e ad adottare comportamenti da forze di cui non sono consapevoli e che comunque non controllano. In politica, tale modo di affrontare il confronto tra valori o prospettive ideali dà questo confronto per risolto a proprio vantaggio prima ancora di averlo condotto, ossia prima ancora di aver tentato di provare a sé stessi e agli altri che i propri valori e ideali sono migliori e più giusti di quelli altrui.
Note
[1] Fofi non è il solo naturalmente a pensarla in questo modo. Il dibattito sul lockdown ha ampiamente dimostrato il contrario – basti pensare alle varie tesi sui provvedimenti presi come esperimenti di disciplinamento totalitario. Colpisce semmai che questa lettura venga riproposta a spiegazione di misure escogitate per riorganizzare a beneficio di tutti una dipendenza di ciascuno da ciascuno degli altri che di rado assume una forma tanto trasparente e chiara.
[2] Posso tuttavia sentirmi importante solo perché appaio importante agli altri? Non è possibile sentirsi qualcuno (pensare di avere un qualche valore) se gli altri non riconoscono la nostra importanza (il nostro valore), ma è vero anche l’opposto: non è possibile sentirsi qualcuno (pensare di avere un qualche valore) soltanto perché gli altri ci considerano importanti. Come inoltre si dirà più avanti, è improbabile che gli altri considerino importante chi rimprovera i trasgressori di una regola.
[3] Vale qualcosa di simile per la frustrazione e l’adesione al fascismo. Non è possibile aderire al fascismo al solo scopo di alleviare la propria frustrazione, ma se si trova nel fascismo un modo per rispondere a un proprio bisogno effettivo è possibile che la frustrazione trovi sollievo.
[4] Diversamente dal sollievo dalla frustrazione.
[5] Sempre che la punizione non sia anonima, com’è per esempio graffiare la carrozzeria di un’automobile posteggiata sulle strisce.
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