Si fa a presto a dirsi “contro”. Nelle arti e mestieri (inclusa quell’arte minore che è il giornalismo) a parole son tutti indipendenti, irriverenti, cavalieri dell’Ideale, dei Don Chisciotte – anche se hanno la faccia dei Sancho Panza, e le facce non mentono mai. In quel tutti contro tutti che è l’insocievolezza umana, ciascuno sgomita anzitutto nel proprio interesse. Contrapporsi a qualcuno o a qualcosa è una necessità vitale, in quanto mezzo per impadronirsi di spazio vitale a spese altrui. Ecco perché, per sgamare il finto contro, l’aurea regoletta è di una semplicità disarmante: misurare il prezzo pagato in prima persona se si sceglie di mettersi di traverso, rinunciando a opportunità, raccomandazioni e corsie preferenziali. La direzione ostinata e contraria, per essere autentica, deve mostrare i calli alle mani causa fatica d’esistere agganciati a un principio senza tempo e che precede qualunque credo di parte, religioso o politico: la Coerenza. Una condotta fissa sui fondamenti consente poi di adattarsi all’estrema variabilità delle occasioni, così da sfruttare le migliori per dare più forza ai convincimenti di fondo. Solo un cretino non cambia mai idea, si dice giustamente. Ma solo un uomo dappoco abbandona la fonte di quel che è (e che non può non essere), non appena gli si presenti la prima proposta di impiego ben remunerato, beninteso previa leccata della pantofola di turno.

Essere contro non è un pranzo di gala né un timbro del cartellino all’ufficio dell’indignazione a comando. Non vuol dire posizionarsi comodi in uno degli spalti a zona prestabilita, per cui se sei di destra schifi automaticamente tutto ciò si muove a sinistra e viceversa, inscenando una commedia delle parti che accresce solo il tedium vitae, di sicuro non la qualità del conflitto. Essere contro non significa ripetere a pappagallo, vita natural durante, le grigliette interpretative da barbecue della domenica, che fa sentire la coscienza a posto con sé stessa quando invece altro non è che un patetico loop mentale, per prostituirsi nel frattempo nei peggiori bar del compromesso.

Essere contro non implica recitare a tutti i costi la parte del bastian contrario, semmai privilegiare quelle volte, non rare eppur circoscritte, in cui uno spirito può manifestarsi davvero libero, cioè quando esprima un’opinione differente da quella che ci si aspetterebbe da lui. Impersonare sé stessi come un manichino, sempre lo stesso copione, sempre la stessa pappa precotta, immancabilmente prevedibile dal primo all’ultimo ingrediente, intascando relativo compenso per meglio servire il padrone, il quale, logicamente, esige la certificabile sicurezza di poterti avere sotto controllo: questo non è essere contro, è il suo contrario. Essere contro è esserlo anche contro sé stessi, mantenendo un atteggiamento mentale aperto al punto di vista avverso a cui per abitudine non prestiamo ascolto.

Essere contro, si diceva, non è esserlo a priori, ma sulla base della propria stella polare. Per il resto, tolleranza massima. Perché tollerare, reggere l’urto fastidioso della diversità, è segno di superiorità non di mescolanza liberaloide, in cui giorno e notte, mane e sera tutte le vacche sono grigie. Essere contro sul serio è, diciamolo pure, una grande e nobile vita di merda. Più che guadagnarci, ci si perde. In moneta, amicizie, relazioni. E allora l’ego cerca compensazione nell’enfiagione narcisistica, rimirandosi allo specchio, soddisfatto per non aver ceduto a lusinghe e scorciatoie, esaltato magari dall’aura controcorrente che lo storytelling in voga può anche riconoscergli, scivolando nell’autoreferenzialità, nella più o meno piccola bolla dell’immobilismo compiaciuto e sterile.

Nulla di troppo, sentenziava uno dei Sette Sapienti. Anche la schiena prolungatamente dritta può essere un male: conduce all’atrofizzazione dei muscoli. L’importante è piegarla non nel verso più facile, iscrivendosi a una delle congreghe vincenti, ma curvandosi con pietas su chi non se la passa bene. Chi sta peggio (politicamente, socialmente, economicamente, psicologicamente) ha abbastanza motivi per fare da bussola nel senso di una maggiore equità, mettendo i valori in linea con la situazione per com’è e non per come ci immaginiamo che sia, nella nostra limitata testolina che proietta film su tutto ciò che le si para innanzi (caso da manuale: il molto acuto fessacchiotto che si crede libero perché ogni desiderio, nel cosmorama giuridico dei diritti pret-à-porter, diventa ordine, ignorando che ciascun diritto ha il suo limite in un dovere).

Senza alcuna voluttà perversa di minoranza, senza inganni e autoinganni il buon contro contraria la maggioranza del momento quel tanto che basti per riequilibrare i pesi, immancabilmente squilibrati quando il vento tira più da una parte e la marea ha un colore solo o al più due. Contro è il ribelle che sulla media distanza è in potenza capace di evolversi in rivoluzionario, e nel breve agguanta ogni chances per portare a casa qualche punto nell’immediato, perché alla lunga saremo tutti morti. Non osteggia il senso comune in quanto tale, semmai l’artefatto buonsenso a vantaggio e profitto di pochi saprofiti che si garantiscono il dominio a suon di grancassa mediatica e super-offerte con rate capestro. Il contro doc non fa quel che fa soltanto per sé, ma anche per altri che come lui non abdicano al diritto-dovere di mandare a quel paese chi dovesse togliergli la libertà senza in cambio nemmeno l’orgoglio di aderire a superiori imprese che valgano la candela. Essere contro è mantenersi vigili sul bordo esterno, ridendo molto, indiavolandosi volentieri, umili con gli umili, attaccabrighe con i fetenti. Un po’ ronin, un po’ guascone, mai settario, sempre sconfinante. Solo così l’incontentabile è contento: trovando ancora una volta in più un motivo per non smettere di esserlo.