Passaggi Le vicende delle società umane sono sempre state scandite da cesure, graduali o traumatiche. Ad alcuni «casi terminali» dedichiamo le prossime pagine
«Nebbia sulla Manica. Il continente è isolato». Così, secondo la leggenda, gli organi di informazione britannici usavano riferire alla popolazione le difficoltà in cui i capricci meteorologici mettevano la sventurata Europa. La citazione è quasi certamente spuria; vera, invece, l’idea che i britannici avevano del loro isolamento: «splendido». Dove si trovano le radici di quell’idea, tornata a galla e impostasi nel referendum del 23 giugno 2016 e poi, di nuovo, nel trionfo elettorale di Boris Johnson il 12 dicembre scorso?
Una tesi diffusa è che si trovino innanzitutto nella natura, cioè nei privilegi dell’insularità. Le condizioni geografiche, però, non sono mai favorevoli o sfavorevoli in assoluto, ma a seconda di circostanze che dipendono tanto dalla natura quanto dalla storia. La storia, appunto, dimostra che l’insularità non è necessariamente un vantaggio (si veda il caso del Giappone, all’estremo opposto della massa eurasiatica), e che non è stata sempre un vantaggio per le stesse isole britanniche. Nel Medioevo, l’attuale Gran Bretagna era l’angolo più povero e desolato del continente europeo; lo restò almeno fino alla conquista normanna (1066), che però mise fine — politicamente — all’insularità: per quasi quattro secoli, fino al termine della guerra dei Cent’anni (1453), infatti, non ci fu soluzione di continuità tra continente e isole, perché quel conflitto non fu, come spesso si crede, tra Francia e Inghilterra, ma tra casate francesi, acquartierate in parte sulle isole e in parte sul continente. Comunque sia, il suo esito «creò» l’Inghilterra, separata dal resto del continente. Fino al 1973, quando il Regno Unito entrò a far parte della Comunità Europea.
Molti pensano che l’insularità implichi una «vocazione» marittima, e spiegano così la (presunta) estraneità dei britannici rispetto al continente. Ma anche quell’idea non è sempre suffragata dai fatti. I vichinghi, che venivano dalla terraferma, erano un popolo di navigatori, mentre i britanni loro contemporanei non lo erano affatto; i giapponesi furono forzati ad aprirsi al mare da un intervento militare americano a metà Ottocento; e gli inglesi non parteciparono che molto tardi all’avventura oceanica avviata da spagnoli e portoghesi a fine Quattrocento. Bisognerà aspettare la vittoria sull’Armada Invencible spagnola (1588) perché i vascelli di sua maestà comincino a solcare regolarmente gli oceani per poi affermarsi nella competizione coloniale.
Il vero punto di svolta fu, quasi due secoli più tardi, la vittoria inglese nella guerra dei Sette anni (1756-1763) che sancì definitivamente la scelta del «gran largo» come orizzonte geopolitico della Gran Bretagna. Mentre la Francia non seppe mai decidersi tra «vocazione europea» e «vocazione ultramarina» (col risultato di fallire, storicamente parlando, su entrambi i fronti), l’Inghilterra imboccò decisamente la seconda, seguendo l’indicazione di Walter Raleigh, corsaro diventato baronetto, nel 1585 fondatore della Virginia in America: «Chiunque controlli il mare controlla il commercio; chiunque controlli il commercio del mondo controlla le ricchezze del mondo e di conseguenza il mondo stesso».
A partire dalla guerra dei Sette anni e, soprattutto, dalla sconfitta di Napoleone, l’Europa fu dunque considerata solo come possibile minaccia alla supremazia mondiale inglese, e trattata come tale. Trattata politicamente, grazie ai delicati equilibri della balance of power architettata da William Pitt e messa in pratica da lord Castlereagh al Congresso di Vienna (1815): spostare i pesi dei vari Stati continentali in modo da costringerli a tenersi perennemente in scacco, facendo giocare a Londra il ruolo di bilanciere esterno in caso di rottura dell’equilibrio. Trattata psicologicamente, grazie a un crescente senso di superiorità che, da una parte, divenne un potente fattore morale di sostegno all’impero, ma che, dall’altra, portò a sottovalutare il rischio di una possibile sfida sui mari da parte di un Paese europeo. Quella politica specifica che venne poi chiamata «splendido isolamento» (1881-1904) fu messa in atto proprio quando l’isolamento sembrava a repentaglio: Londra si appoggiò su due potenze continentali — Austria e Germania — per controbilanciare il crescente attivismo mediterraneo della Francia, in particolare dopo l’occupazione della Tunisia e l’accordo con la Russia. Si trattava, è vero, dell’applicazione del ruolo di bilanciere esterno assunto a Vienna, ma non era certo quell’indifferenza nei confronti delle vicende europee che di solito viene associata alla splendid isolation. Nel 1904, quando la minaccia principale sui mari era ormai rappresentata dalla Germania, Londra scelse la via dell’entente cordiale, cioè l’intesa con Parigi contro la crescente intraprendenza di Berlino: la stessa politica, ma con i partner scambiati.
La supremazia britannica sul mondo, però, non fu messa in crisi dagli europei, ma dagli americani, che fecero propria la strategia di sir Raleigh: estesero progressivamente il loro controllo sui mari e distrussero tutti gli imperi coloniali europei, il più importante dei quali era quello britannico. Il colpo di grazia arrivò con la crisi di Suez, nel novembre 1956: Washington ingiunse a Londra e a Parigi di ritirarsi immediatamente dall’Egitto, meno di un mese dopo il loro tentativo di impadronirsi manu militari del canale.
Suez rappresenta l’atto di decesso dell’Impero britannico. Da allora, il Regno Unito è entrato in una crisi di identità geopolitica: per più di due secoli, identità britannica e identità imperiale si erano sovrapposte fino ad apparire inseparabili; ora, l’identità imperiale scompariva definitivamente, rischiando di trascinare con sé la stessa identità britannica. L’impero apparteneva al passato, e il Paese doveva trovare una nuova ragione d’essere, una nuova identità geopolitica. La scelta — laboriosa, tutt’altro che unanime e, come dimostrato dal referendum del 2016, tutt’altro che definitiva — fu tentare di marciare su due stampelle: da una parte, visto che sembrava ormai impossibile opporsi agli Stati Uniti, consolidando la special relationship con loro; dall’altra, agganciandosi al processo europeo. Il primo atto (1960) fu la creazione di un’area di libero scambio, l’Efta, con una serie di Paesi (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera) che non desideravano o non potevano entrare nella Cee. Il secondo, già l’anno successivo, fu la domanda di adesione alla stessa Cee: il primo ministro conservatore Harold Macmillan raccolse il quasi unanime sostegno del suo partito, ma non dei laburisti, isolazionisti e protezionisti.
È noto che la Gran Bretagna dovette fare tredici anni di anticamera a causa del veto posto dalla Francia di Charles de Gaulle. Nel cercare di spiegare le ragioni della «Manica larga», si è sempre insistito sull’altezzosa freddezza dei britannici nei confronti del continente, ma molto meno sull’altezzosa freddezza del continente, segnatamente della Francia, verso i britannici. Non è da escludere che una delle ragioni della duratura diffidenza/ostilità britannica nei confronti dell’Europa dipenda dal risentimento per essere stati tenuti così a lungo fuori dalla porta, e per di più proprio dai francesi. I negoziati per l’adesione del Regno Unito alla Cee iniziarono nel luglio 1970, quando de Gaulle non era più al potere ormai da un anno; ma, allora, il 55 per cento della popolazione britannica era contrario, e solo il 24 favorevole, secondo un sondaggio dell’epoca.
Dal 1973 a oggi, classe dirigente e popolazione hanno traccheggiato tra la convinzione che il legame con l’Europa fosse vitale e la convinzione che il Paese potesse diventare di nuovo grande solo tornando allo splendido isolamento. Quando i laburisti giunsero al potere nel 1974, non si assunsero la responsabilità di ritirare il Paese dalla Cee, ma si affidarono, anche allora, a un referendum. Il Paese stava attraversando forse la più grave crisi della sua storia recente, e il premier Harold Wilson affermò che il risanamento dell’economia sarebbe stato «incommensurabilmente più difficile» fuori dall’Europa. La Comunità, insomma, si presentava sotto la migliore luce, quella che le ha garantito la popolarità nel corso dei decenni: come prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita. Al referendum del 1975, i voti favorevoli si imposero per due terzi; i votanti, però, erano stati solo il 64 per cento, il che significa che più della metà della popolazione continuava ad essere ostile o indifferente all’Europa (per la cronaca, i nazionalisti scozzesi votarono allora compattamente contro).
Quel che è cambiato, tra il 1975 e il 2016, non riguarda tanto il Regno Unito quanto l’Europa. In quei 41 anni, il reddito pro capite dei britannici è più che raddoppiato in termini reali, passando da 19.401 dollari a 42.510 (valore costante 2011, dati Banca mondiale) e, rispetto alla media mondiale, dal 197 per cento al 406,5: pur sapendo che si tratta della media del pollo, è arduo sostenere che i sudditi di sua maestà stessero peggio nel 2016 che nel 1975. Anzi, è probabile che proprio il fatto di vivere così incomparabilmente meglio rispetto ad allora abbia spinto molti a pensare che quel miglioramento dipendesse non da un’Europa in affanno economicamente e politicamente, ma dalle virtù della Gran Bretagna. Non grazie all’Europa, insomma, ma nonostante l’Europa. Il tutto in un contesto mondiale in cui la concorrenza è diventata più fitta e aspra e l’avvenire più nebuloso e incerto; un contesto che spinge molti (e non solo in Gran Bretagna) a volersene isolare, meglio se splendidamente.
Come in tutte le epoche di transizione e di confusione, anche oggi — alla vigilia di quel 31 gennaio che segna l’atto finale della Brexit — alla realtà si preferiscono i miti; e il mito dell’impero, dell’epoca gloriosa in cui era il mondo a prostrarsi ai piedi dell’Inghilterra, è un sogno che, nelle isole britanniche, offre a molti un senso di conforto e protezione. È un sogno, però. Che ha grandi probabilità di trasformarsi in incubo.