“Oggi servirebbe gente come lui leader con grandi partiti alle spalle”
Mirella Serri
«Lo ricordo come un gigante, voglio dire come un grande italiano, uno dei padri della Repubblica. Ma quante volte si è contraddetto! E quante volte siamo entrati in conflitto!»: Emanuele Macaluso, classe 1924, più giovane di 17 anni di Giorgio Amendola, di cui il 5 giugno ricorrono i 40 anni dalla scomparsa, era assai più minuto e meno imponente del leader «gigante». Amendola era connotato da una robusta corporatura e da una voce tonante, tanto che i compagni di partito dicevano che fosse un tipo da prendere con le molle, così «brusco e duro».
Nato a Roma nel 1907, era chiamato il «democratico prepotente» e aveva fama di incutere un gran timore a chi lo contrastava. Ma non mise mai soggezione a Macaluso, autorevole maître à penser della sinistra italiana, uno dei più importanti protagonisti della nostra vita politica, nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd: quello tra il futuro direttore dell’Unità e poi de Il Riformista e Giorgione (era il soprannome di Amendola) fu un intenso e appassionato incontro-scontro, destinato a durare tutta la vita. Il dirigente del Pci fu il mentore di Macaluso nella corrente riformista o migliorista del partito, nata per orientare il partito verso una stretta collaborazione con i socialisti e nelle cui file militò anche Giorgio Napolitano, destinato a diventare presidente della Repubblica .
Convinti meridionalisti entrambi, all’inizio della vostra conoscenza marciavate in sintonia?
«Quando ci siamo conosciuti, negli anni Cinquanta nel Comitato nazionale per la rinascita del Mezzogiorno, Amendola s’imponeva con un eccezionale pedigree: era figlio di un ministro liberale, Giovanni, massacrato di botte dai fascisti, aveva patito il confino e l’esilio, era stato uno dei protagonisti della Resistenza e di discussi attentati, come quello di via Rasella. Nonostante la sua autorità, molte sue prese di posizione non mi convincevano. Non ho mai avuto timore di fronteggiarlo e così ci capitava di incrociare vivacemente le lame proprio sui destini del Sud: vedeva il Mezzogiorno come qualcosa di omogeneo e non capiva la peculiarità e le necessità di autonomia della Sicilia».
I grandi meriti politici di Amendola, quali furono?
«A lui dobbiamo l’approdo europeista della sinistra italiana. Fu uno dei primi convinti sostenitori dell’Europa comunitaria. Sapeva superare asprezze e polemiche. Nel 1970 supportò con convinzione la candidatura di Altiero Spinelli, fondatore del Movimento federalista europeo, alla Commissione di Bruxelles, prima, e al Parlamento europeo, più tardi, nonostante fossero su lidi opposti: Spinelli, antistalinista, era sempre stato molto critico nei confronti dei comunisti italiani. Giorgio aveva un rapporto privilegiato con Ugo La Malfa e con il partito repubblicano, avamposto in Italia dell’europeismo. La sinistra, grazie ai suoi sforzi e alle sue relazioni, capì l’importanza di un’ Europa unita».
Vi siete confrontati entrambi con le difficoltà della ricostruzione del dopoguerra, con la durezza delle lotte operaie e contadine, con i tentativi di imporre governi reazionari. Avete condiviso un passato di problemi che ogni volta sembravano insuperabili: oggi quale insegnamento possiamo trarre dalla figura di Amendola?
«Si annunciano mesi bui e un autunno impervio. Alla pandemia si è aggiunta la crisi economica e sono nere le previsioni di crescita. Però le differenze tra i politici di ieri e di oggi sono notevoli. Amendola non si tirava indietro di fronte ai suoi errori. Quando approvò l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica aveva dalla sua l’intero partito. Quando invece fu favorevole all’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa ebbe contro gran parte del Pci. Non si preoccupava di andare d’accordo con tutti e riteneva che in un partito politico l’omologazione delle opinioni divergenti non fosse necessaria. Nella tradizione della sinistra ha sempre prevalso il dibattito accanito e poi la votazione… Una volta presa la decisione, però, si mettevano da parte le divergenze e si lavorava, lealmente, allo stesso progetto. Oggi i politici non smettono mai di litigare. E lo stallo è assicurato».
Cosa manca, rispetto agli esempi del passato, a chi siede in Parlamento o sugli scranni del governo?
«E’ assente la capacità di visione d’insieme e di sintesi politica che era propria di personaggi come Amendola. Il premier Giuseppe Conte è molto responsabile e abile ma non ha alle spalle né un partito né l’apprendistato politico. Roberto Gualtieri, ministro dell’ Economia, è un tecnico di altissimo livello come lo è Giuseppe Provenzano che occupa il dicastero per il Sud. Ma dietro di loro non ci sono i partiti che, invece, ancora oggi sono il nerbo della politica in Inghilterra, Spagna, Germania. La Francia con il movimento politico di Macron ha una situazione più incerta e debole. Da noi l’unica forza strutturata è il Pd governato da Nicola Zingaretti che però spesso si barcamena come una navicella in un mare in tempesta. Zingaretti è un buon amministratore ma non esprime una forte leadership. Il Movimento 5 Stelle è allo sbando. I grillini sono spappolati, manca la testa – Vito Crimi non può essere considerato un capo – ma ha perso anche la coda. Non hanno una base politica e culturale, sono un po’ di destra, come Luigi Di Maio, e un po’ di sinistra come Roberto Fico, mentre Alessandro Di Battista è un battitore libero, un viaggiatore sputasentenze. La destra invece è tutta in mano a Matteo Salvini che, andando a far propaganda per lidi e per spiagge, non mostra certo di avere la tempra di uomo di governo, capace di coprire responsabilità istituzionali».
Per il futuro dobbiamo aspettarci la rivolta sociale di ceti impauriti e impoveriti?
«Il premier Conte, il ministro Gualtieri e altri saranno in grado di mettere delle toppe alle falle aperte dalla depressione economica. Anche se, quando si tratta di prendere una decisione, i 5 Stelle sono ondivaghi, incerti e alla fine si adeguano ai diktat di chi alza la voce. Persino quando si tratta di applicare la loro ricetta neostatalista, in una situazione come questa di grande emergenza, sono esitanti. ‘Chi ha più filo tesserà’, era solito dire Amendola a conclusione di una riunione particolarmente dura e contrastata. I politici più accorti sapevano tenere il bandolo della matassa. Oggi la nostra è una repubblica senza partiti che rischia di collassare».