La Saatchi di Londra ripropone la storica mostra fotografica “America in crisis” del ’69, ma aggiornata con le nuove incognite made in Usa. L’abbiamo vista per voi
di Antonello Guerrera
LONDRA
«Ihave a dream». Tutti hanno un sogno in America. Sogni realizzati, agognati, infranti, bruciati. È il motu proprio, l’immane, plurisecolare forza degli Stati Uniti moderni, “l’American Dream” coniato dallo scrittore James Truslow Adams nel 1931. Perché, come si legge nel suo The Epic of America , «la vita dovrebbe essere migliore, più ricca e più piena per tutti, con opportunità per ognuno, a seconda delle proprie abilità o successi ». Ora però è di nuovo tempo di “America in crisis”. Stavolta a Londra. Perché, visto che Usa e Regno Unito sono due nazioni “divise dalla stessa lingua” secondo George Bernard Shaw, alla galleria Saatchi della capitale britannica è arrivata da pochi giorni, e vi rimarrà fino al 3 aprile 2022, il remake della celebre mostra del 1969 al Riverside Museum di Manhattan. Ovvero la pioniera America in crisis , che poi divenne anche libro, documentario e installazione sperimentale, che all’epoca venne concepita dalla storica agenzia fotografica Magnum. Idea, un anno prima dalla sua inaugurazione, in particolare del fotografo americano Charles Harbutt e di Lee Jones, il capo dell’ufficio di New York di Magnum.
Un progetto, quello originario di oltre mezzo secolo fa, che lasciò il segno. Perché, attraverso le straordinarie istantanee dell’agenzia da ogni angolo del Paese, mostrò il contrasto cromatico, sociale, culturale ed economico degli Stati Uniti. La patria custode del diritto a sognare, ma la cui realtà, povertà e tensioni smentivano gli stessi assiomi fondanti.
In un’epoca allora decisamente tormentata: gli omicidi di Martin Luther King Jr. e Robert Kennedy, le diseguaglianze, la sempre più divisiva guerra del Vietnam, le folle al Grant Park di Chicago nel 1968, fino alle elezioni dello stesso anno con il repubblicano Richard Nixon che sconfisse il democratico Hubert Humphrey.
America in crisis , dunque, ora approda alla Saatchi, dove si possono vivere e rivisitare queste straordinarie foto, per due motivi. Il primo: i curatori Gregory Harris, Tara Pixel e Sophie Wright credono che gli Stati Uniti stiano vivendo turbolenze molto simili alla fine degli anni Sessanta, da Black Lives Matter, con la questione razziale di nuovo assolutamente centrale, al dramma del Coronavirus fino al sisma politico di Donald Trump, culminato nell’assalto al Campidoglio di molti suoi sostenitori un anno fa, e le cui scosse sono ancora potenti. A proposito del mito dell’American dream ridimensionato da quella, anzi questa, rassegna del 1969, Pixel dichiara che «l’individualismo sfrenato degli ultimi decenni si è evoluto in politiche economiche che oggi più che mai instillano diseguaglianze da una costa all’altra» dell’America.
Il secondo motivo della riemersione di questa mostra, con 120 eccezionali foto di 40 diversi fotografi americani, è il suo aggiornamento con nuove e potenti istantanee che vogliono riflettere le ultime paure e turbamenti degli Stati Uniti, soprattutto politici e sociali. E dunque ecco gli scatti violenti di Philip Montgomery, che lavora per New York Times e Vanity Fair e immortala con immagini ferali e tenebrosi l’efferatezza di certa polizia americana, la crisi del Covid e degli oppiacei, Black Lives Matter.
Oppure Zora J Murff che cattura l’istante dello sparo dell’agente contro un ragazzo nero. O Robert Cohen che nella aspra St Louis immortala una silenziosa disperazione sociale. Grazie alla classe di Jessica Phelps, invece, conosciamo gli insospettabili invisibili di San Francisco, che sembrano borghesi ma che con i loro bambini vivono in tende sotto i ponti.
La “geografia della povertà”, pallino del fotografo Matt Black tra i mostri architettonici di Buffalo, le pentole dei poveri di Rome, Mississippi, o le cocenti praterie cittadine di El Paso. Fino alle travolgenti immagini di Balazs Galdi di quel 6 gennaio 2021, quando il cuore della democrazia americana a Washington è finito sotto attacco.
Ovviamente, però, c’è anche tutta la parte di mostra recuperata da quella straordinaria kermesse del 1969 e che oggi inaugura anche la rassegna della Saatchi. Indimenticabili, per
esempio, le fotografie di Paul Fusco sulla morte di Jfk: le lacrime lapidarie della moglie Jackie, una variopinta ressa sull’orlo dei binari per l’ultimo saluto, lo striscione in campagna catturato dall’alto: «So Long, Bobby ».
Oppure i barbecue delle suburbs americane nelle foto di Elliott Erwitt, la maestria dell’ unconcerned photographer e demiurgo Harbutt nelle periferie di Chicago e le sue sublimi catture quotidiane della Manhattan povera del 1963: una su tutte, “Puerto Rican family in New York City”, dove si mangia, cucina e si fa il bagno nella stessa stanza.
Il massimo pregio di questa piccola ma stupefacente mostra è la sua puntuta capacità nel rappresentare, in un centinaio di scatti, l’unicità e l’eccezionalismo americani, nel bene e nel male, che si colgono anche negli sguardi, unici, dei protagonisti.
Un mala tempora currunt ispira la rassegna. La quale però, allo stesso tempo, ci pone davanti a un interrogativo capitale: il sogno americano, nonostante le sue disfunzioni, è ancora vivo? Una risposta questa mostra può darla.