L’ANALISI
Ancora qualche riflessione su Palermo capitale della cultura 2018 sulla scia del libro di Gian Paolo Manzella “L’Economia arancione. Storie e politiche della creatività” (Rubbettino, 2017). Cosa s’intende, innanzi tutto, per economia arancione e cosa ha a che fare l’economia con la creatività? La creatività, o più esattamente quella che si definisce come industria creativa è un vasto contenitore in cui rientrano attività legate all’architettura, all’artigianato, al design, ai beni culturali, al marketing, alla tecnologia dell’informazione e del software.
< Di cronaca Oltre all’ampio settore che include la televisione, la radio, l’informazione, il cinema, l’audiovisivo e la fotografia, contribuisce, in modo determinante, a trasformare, convertire, la cultura in attività economica.
Non, dunque, secondo l’autore del volume, una moda effimera ma un fenomeno destinato a durare e sempre più a divenire una parte dell’economia mondiale reale, al punto che, secondo alcuni osservatori, l’era della creatività sta subentrando a quella dell’informazione. No so dire se questa opinione si rivelerà, nel tempo, veritiera né intendo addentrarmi in quello che a me appare come un vicolo cieco teso a riconoscere il valore della cultura umanistica, dei beni culturali ed ora della creatività solo se in funzione di volano dell’economia.
Non che ci sia nulla di male a innestare sviluppo e crescita economica, tutt’altro! Semplicemente reputo questa formula, spesso ripetuta come una litania, densa di insidie. Ciò perché mi appare come mal impostata in quanto immemore della tradizione del passato dove creatività e “tecnologia”, unitamente alla creazione di città intelligenti (quelle che oggi si definiscono come smart city) erano un elemento imprescindibile, distintivo di civiltà. Ritengo proficuo, piuttosto, interrogarsi, proprio a partire dal libro di Manzella e dal concorso d’idee promosso dalla redazione palermitana di Repubblica (palermonet@repubblica.it) volto a trasformare creativamente le grigie barriere anti terrorismo collocate lungo le vie pedonali della città, sulla necessità di formare, anche, una serie di profili pofessionali “creativi”.
Nuove figure in grado di fornire contributi importanti a una programmazione ad ampio raggio, sempre più necessaria, che sappia coniugare la memoria del passato, le necessità del presente con i desideri, soltanto apparentemente inattuabili, legati a ipotesi nuove di costruzione del futuro. L’economia arancione, è quindi un aspetto concreto.
Vale su un piano globale, e cito sempre Manzella, circa 2250 miliardi di dollari, di cui 709 miliardi soltanto in Europa. Cifre che si traducono in occupazione per 30 milioni di persone, ovvero, sempre secondo le statistiche riportate dall’autore, più degli occupati dell’industria automobilistica degli Stati Uniti, Europa e Giappone messi insieme. Ciononostante, secondo le stime il settore, pur nelle evidenti potenzialità, non è ancora sviluppato in pieno. Particolarmente in Italia, pur depositaria di esempi interessanti che provengono anche dal passato recente, manca una visione d’insieme in grado di conciliare l’attenzione e la tutela del territorio, lo sviluppo urbanistico, la centralità del cittadino, la salute, con una progettualità complessiva e non settoriale. Il confronto, è noto, aiuta a capire: proseguendo, dunque, con un ragionamento che va oltre le pagine del libro di Manzella e l’iniziativa palermitana cito alcuni esempi di creatività intesa non come espressione casuale, “genialoide”, e quindi seppur apprezzabile fine a se stessa, ma come sorta di laboratorio continuo che ha prodotto innovazione, progettazione e fantasia trasformando in positivo problemi climatici e ambientali sfavorevoli.
Mi riferisco allo smaltimento e al recupero dei rifiuti e alla riconversione di questi in edifici destinati al sociale. Un tema scottante, quello della spazzatura, che ha occupato e occupa il dibattito politico nazionale e locale e non nuovo per l’architettura contemporanea. Un aspetto sempre più urgente anche in considerazione di un punto di vista etico ed eco – sostenibile e non solo di quello legato alla pratica del costruire. Basti pensare, riservando ad altre sedi l’analisi dei pro e dei contro, alla riconversione di materiale di scarico, qual è quello dei vecchi e dismessi container per le merci in materiale edificabile e già oggetto, in parte, di un’interessante mostra tenutasi, nel 2011, al Maxxi (“Re-cycle. Strategie per la città e il pianeta”, a cura di Pippo Ciorra, Mondadori Electa editore).
Molti, a riguardo, gli esempi possibili diffusi in varie parti del mondo: dal Sudan alla Spagna, dalla Cina e la Corea del Sud all’Italia, dalla Germania al Giappone dove ricordo l’asilo antisismico realizzato ad Ibaraki.
Tra gli edifici recenti segnalo la proposta di costruzione di alloggi destinati agli studenti fuori sede dell’università di Copenaghen, proposta dalla start up di edilizia sostenibile Urban Rigger per la firma di Bjarke Ingels e fatta propria dalla municipalità cittadina. L’idea, realizzatasi nel 2016, era quella di costruire case mobili e sull’acqua attraverso un riuso creativo dei container navali che consentisse di edificare strutture economiche, accessibili agli studenti a prezzi inferiori a quelli di mercato. Abitazioni recuperabili che non incidono sul già costruito e dove ogni alloggio dispone di una camera da letto con bagno e cucina con ampie finestre apribili, oltre all’uso, tipico della tradizione scandinava, di spazi comuni quali le terrazze sul tetto, il cortile con la zona barbecue e gli spazi destinati alle biciclette e all’attracco dei kayak.
Un segno architettonico collocato in pieno centro, nel mare della città, secondo quello che sta diventando un tratto distintivo dello sviluppo della capitale danese e teso a rafforzare, sotto molti punti di vista, il rapporto con il mare.
Rapporto che non è prerogativa, come insegna Michel Mollat du Jourdin (“L’Europa e il mare dall’antichità ad oggi”, Economica Laterza, 1996, 2011), solo dei popoli del mediterraneo ma che ha sempre improntato, anche nei secoli scorsi, la cultura, l’economia e le usanze dell’area scandinava. E’ interessante, pertanto, in un’ottica di reciproco scambio, constatare che se Barcellona è stata, pur con le inevitabili e opportune varianti, punto di riferimento per la Copenaghen di questi anni e del prossimo futuro, la capitale danese può suggerire spunti per un rinnovato modello di relazione con l’acqua ai Paesi dell’area mediterranea e, pur con le necessarie distinzioni, a Palermo, in particolare.
< Di cronaca Oltre all’ampio settore che include la televisione, la radio, l’informazione, il cinema, l’audiovisivo e la fotografia, contribuisce, in modo determinante, a trasformare, convertire, la cultura in attività economica.
Non, dunque, secondo l’autore del volume, una moda effimera ma un fenomeno destinato a durare e sempre più a divenire una parte dell’economia mondiale reale, al punto che, secondo alcuni osservatori, l’era della creatività sta subentrando a quella dell’informazione. No so dire se questa opinione si rivelerà, nel tempo, veritiera né intendo addentrarmi in quello che a me appare come un vicolo cieco teso a riconoscere il valore della cultura umanistica, dei beni culturali ed ora della creatività solo se in funzione di volano dell’economia.
Non che ci sia nulla di male a innestare sviluppo e crescita economica, tutt’altro! Semplicemente reputo questa formula, spesso ripetuta come una litania, densa di insidie. Ciò perché mi appare come mal impostata in quanto immemore della tradizione del passato dove creatività e “tecnologia”, unitamente alla creazione di città intelligenti (quelle che oggi si definiscono come smart city) erano un elemento imprescindibile, distintivo di civiltà. Ritengo proficuo, piuttosto, interrogarsi, proprio a partire dal libro di Manzella e dal concorso d’idee promosso dalla redazione palermitana di Repubblica (palermonet@repubblica.it) volto a trasformare creativamente le grigie barriere anti terrorismo collocate lungo le vie pedonali della città, sulla necessità di formare, anche, una serie di profili pofessionali “creativi”.
Nuove figure in grado di fornire contributi importanti a una programmazione ad ampio raggio, sempre più necessaria, che sappia coniugare la memoria del passato, le necessità del presente con i desideri, soltanto apparentemente inattuabili, legati a ipotesi nuove di costruzione del futuro. L’economia arancione, è quindi un aspetto concreto.
Vale su un piano globale, e cito sempre Manzella, circa 2250 miliardi di dollari, di cui 709 miliardi soltanto in Europa. Cifre che si traducono in occupazione per 30 milioni di persone, ovvero, sempre secondo le statistiche riportate dall’autore, più degli occupati dell’industria automobilistica degli Stati Uniti, Europa e Giappone messi insieme. Ciononostante, secondo le stime il settore, pur nelle evidenti potenzialità, non è ancora sviluppato in pieno. Particolarmente in Italia, pur depositaria di esempi interessanti che provengono anche dal passato recente, manca una visione d’insieme in grado di conciliare l’attenzione e la tutela del territorio, lo sviluppo urbanistico, la centralità del cittadino, la salute, con una progettualità complessiva e non settoriale. Il confronto, è noto, aiuta a capire: proseguendo, dunque, con un ragionamento che va oltre le pagine del libro di Manzella e l’iniziativa palermitana cito alcuni esempi di creatività intesa non come espressione casuale, “genialoide”, e quindi seppur apprezzabile fine a se stessa, ma come sorta di laboratorio continuo che ha prodotto innovazione, progettazione e fantasia trasformando in positivo problemi climatici e ambientali sfavorevoli.
Mi riferisco allo smaltimento e al recupero dei rifiuti e alla riconversione di questi in edifici destinati al sociale. Un tema scottante, quello della spazzatura, che ha occupato e occupa il dibattito politico nazionale e locale e non nuovo per l’architettura contemporanea. Un aspetto sempre più urgente anche in considerazione di un punto di vista etico ed eco – sostenibile e non solo di quello legato alla pratica del costruire. Basti pensare, riservando ad altre sedi l’analisi dei pro e dei contro, alla riconversione di materiale di scarico, qual è quello dei vecchi e dismessi container per le merci in materiale edificabile e già oggetto, in parte, di un’interessante mostra tenutasi, nel 2011, al Maxxi (“Re-cycle. Strategie per la città e il pianeta”, a cura di Pippo Ciorra, Mondadori Electa editore).
Molti, a riguardo, gli esempi possibili diffusi in varie parti del mondo: dal Sudan alla Spagna, dalla Cina e la Corea del Sud all’Italia, dalla Germania al Giappone dove ricordo l’asilo antisismico realizzato ad Ibaraki.
Tra gli edifici recenti segnalo la proposta di costruzione di alloggi destinati agli studenti fuori sede dell’università di Copenaghen, proposta dalla start up di edilizia sostenibile Urban Rigger per la firma di Bjarke Ingels e fatta propria dalla municipalità cittadina. L’idea, realizzatasi nel 2016, era quella di costruire case mobili e sull’acqua attraverso un riuso creativo dei container navali che consentisse di edificare strutture economiche, accessibili agli studenti a prezzi inferiori a quelli di mercato. Abitazioni recuperabili che non incidono sul già costruito e dove ogni alloggio dispone di una camera da letto con bagno e cucina con ampie finestre apribili, oltre all’uso, tipico della tradizione scandinava, di spazi comuni quali le terrazze sul tetto, il cortile con la zona barbecue e gli spazi destinati alle biciclette e all’attracco dei kayak.
Un segno architettonico collocato in pieno centro, nel mare della città, secondo quello che sta diventando un tratto distintivo dello sviluppo della capitale danese e teso a rafforzare, sotto molti punti di vista, il rapporto con il mare.
Rapporto che non è prerogativa, come insegna Michel Mollat du Jourdin (“L’Europa e il mare dall’antichità ad oggi”, Economica Laterza, 1996, 2011), solo dei popoli del mediterraneo ma che ha sempre improntato, anche nei secoli scorsi, la cultura, l’economia e le usanze dell’area scandinava. E’ interessante, pertanto, in un’ottica di reciproco scambio, constatare che se Barcellona è stata, pur con le inevitabili e opportune varianti, punto di riferimento per la Copenaghen di questi anni e del prossimo futuro, la capitale danese può suggerire spunti per un rinnovato modello di relazione con l’acqua ai Paesi dell’area mediterranea e, pur con le necessarie distinzioni, a Palermo, in particolare.
La Repubblica – GABRIELLA DE MARCO – 20/09/2017 pg. 1 ed. Palermo.