“Sono tanto instabile che una tempesta notturna potrebbe facilmente portarmi via. Mi sono inerpicato molto in alto, e sempre in prossimità del pericolo ‒ ma senza risposta alla domanda: in che direzione?”
Sono queste le parole che nel giugno del 1887 uno sconsolato Friedrich Nietzsche scrive al caro amico Peter Gast dalle alte alpi svizzere di Lenzerheide. Qui – isolato dalle insulsaggini del mondo moderno e dalle chiacchiere dei quotidiani – il viandante redige in soli quattro giorni una serie di appunti sul nichilismo, i quali, a detta di Mazzino Montinari, ci consentono di cogliere alcuni profondi aspetti di un argomento che, a dispetto degli infiniti testi esegetici prodotti negli anni, si presta a essere ancora oggi variamente interpretato, variamente frainteso. Queste annotazioni si collocano in una fase del filosofare nietzscheano che comprende Così parlò Zarathustra, Al di là del bene e del male e, in prospettiva, Genealogia della morale. Pertanto nel 1887 il tema del nichilismo – presente almeno implicitamente sin dai tempi della Nascita della tragedia – era stato dal filosofo già in parte sviscerato e le fondamenta per poterlo sviluppare ulteriormente erano già state ampiamente gettate. Non a caso, l’apolide ritornerà sulla controversa tematica non solo di lì a poco nella stessa Genealogia, ma anche in vari frammenti vergati in questi anni, i quali, stando ai propositi mai realizzati dello stesso autore, avrebbero dovuto confluire nell’ultima grande summa della sua filosofia: La Volontà di potenza – anzi, come ricorda Giuliano Campioni, le stesse note di cui qui discutiamo, sarebbero comparse, seppur mutile, in origine proprio nella versione di Der Wille zur Macht edita nel 1906 dall’editore Naumann e curata da Peter Gast e da Elisabeth Nietzsche. Come è risaputo, nonostante oggi filosofi come Maurizio Ferraris tendano a rivalutarla, Colli e Montinari avrebbero poi contestato questa operazione editoriale (e le altre connesse) riordinando cronologicamente e non tematicamente i frammenti del filosofo e pubblicandoli nella loro integrità. Lo stesso Il nichilismo europeo – titolo col quale Adelphi pubblica nel 2006 il libello che contiene la versione italiana del Frammento di Lenzerheide – è dunque figlio di quest’opera di rivisitazione esegetica e filologica. Dopo questa breve e manchevole contestualizzazione, non ci resta che immergerci nelle dense e chiaroscurali acque dei testi di Lenzerheide premettendo che ci limiteremo ad argomentare solo alcune nozioni tratte dagli enigmatici, aurorali aforismi.
Sin dal primo dei sedici brevi testi, Nietzsche decostruisce la morale che, conferendo all’uomo un valore assoluto, servirebbe agli “avvocati di Dio” per giustificare il male e la paradossale perfezione del mondo. Non solo, la morale stabilirebbe altresì nell’uomo un “sapere intorno ai valori assoluti” fornendogli per le cose più importanti una “conoscenza adeguata”. In altre parole, la morale permetterebbe all’uomo di non essere ostile nei confronti della vita e lo aprirebbe a una speranza circa la possibilità di conoscere aspetti essenziali, globali della esistenza. Secondo questa prospettiva – in quanto “antidoto contro il nichilismo teorico e pratico” – la morale sarebbe nient’altro che un “mezzo di conservazione”, uno strumento sottile e sopraffino grazie al quale l’uomo si salverebbe dal dolore più grande che, sin dai tempi della Nascita della tragedia, consiste per Nietzsche nella stessa insensatezza del dolore. Finora dunque nulla di veramente nuovo giacché il filosofo aveva già scritto – e scriverà estesamente nella Genealogia – in che senso la morale sia funzionale alla autoconsolazione e in che senso, in un’opera di profondo addomesticamento e di ammorbamento antropologico, consenta all’uomo di sopportare l’esistenza. Già il secondo frammento però si fa più complicato perché Nietzsche osserva che se da un lato la stessa morale ha promosso la veridicità (ossia la possibilità di cogliere il senso delle cose e di dare un significato univoco alla vita), dall’altra proprio la veridicità arriverà a fare a pezzi la morale mostrandone – massimamente con Nietzsche – la teleologia, cioè mostrandone i fini ultimi, l’interesse e, viceversa, demolendo il suo “disinteresse”. La morale che promuove la veridicità, essendo interessata e mossa da bisogni tutt’altro che puri, non è essa stessa veritiera o non lo è nella misura in cui ne venga svelato l’“interesse”. La consapevolezza che la morale si regge su una menzogna è uno stimolo per il nichilismo poiché conferma ciò che l’aforisma 125 della Gaia Scienza aveva annunciato: la morte di Dio – intesa sì come fuga di dèi, estinzione del sacro, ma soprattutto, heideggerianamente, come crollo di ciò che vale, di ciò intorno a cui l’uomo organizza la propria esistenza, crollo di tutto l’orizzonte assiologico, non soltanto di quello meramente religioso – crollo, deposizione e funerale soprattutto del Dio della morale. I bisogni instillati in noi dalla morale sono ora ritenuti ingannevoli, contingenti. Da tali bisogni – ascetici, legati alla consolazione, alla sopportazione, al senso di giustizia universale e alla redenzione – dipende lo stesso valore. Ma, allora, se i bisogni sono spogliati della loro assolutezza e se ne scopre la natura troppo umana, che ne è dei valori a essi connessi? Appunto nulla. D’altra parte, Nietzsche nota che la necessità della morale come antidoto rispetto alla insensatezza si affievolisce se la vita è meno pericolosa; per questo – diversamente dai tragici tempi andati – l’uomo contemporaneo che vive in un periodo meno incerto può “ammettere molta più insensatezza e caso” e ciò, appunto, fungerebbe da stimolo per il nichilismo. Tale paradossale potenziamento dell’uomo che consiste nell’accoglimento almeno parziale della casualità, produrrebbe la riduzione dei mezzi di disciplina, tra i quali, al massimo livello, si collocano gli stessi valori della morale. Di conseguenza, visto che oggi possiamo sopportare una maggiore svalutazione dei valori, chiosa Nietzsche, Dio appare come “un’ipotesi troppo estrema” ed è forse arrivato il momento in cui la vita possa essere sopportata senza ricorrere ai valori assoluti. Ma che cosa contrapporre a un’ipotesi estrema quale è quella di Dio nel momento in cui questa si indebolisce? All’idea estrema di Dio e di un ordine morale del mondo si oppone la credenza altrettanto estrema nella “assoluta immortalità della natura, nella mancanza di scopo e di senso”. Perciò, anche alla luce di questa contro-tesi, si è più “riluttanti” a vedere un “senso nel male e nella esistenza stessa”:
“Una interpretazione è tramontata; ma poiché vigeva come la interpretazione, sembra che l’esistenza non abbia alcun senso, che tutto sia invano”.
Eppure non finisce così, con un “invano!”. Il processo è avanzato a tal punto da indurre l’uomo a capire che tutti i valori sono “allettamenti” grazie ai quali la commedia insensata della esistenza prosegue senza mai arrivare alla soluzione; tuttavia che le cose stiano in questo modo, annota il filosofo di Röcken, paralizza l’uomo; infatti, il pensiero abissale secondo il quale la durata della commedia vitale procede senza scopo, appunto invano, rende l’uomo passivo, lo schiaccia nel no. Ciò che dura, dura invano e l’azione è bloccata sul nascere (nichilismo pratico); la stessa volontà di verità è annichilita (nichilismo teorico). È paralizzante, puntualizza il filosofo, specialmente capire che si viene presi in giro e che parimenti non si ha la forza di non farsi prendere in giro. Non basta pertanto martellare le desuete tavole dei valori tradizionali, non basta considerare le chiese sepolcri di Dio, non basta trascinare il Padre giù dal cielo, anzi – lo sa bene l’uomo folle che inveisce contro i positivisti sghignazzanti – “strusciare via l’intero orizzonte” e “sciogliere la terra dalla catena del suo sole” non genera affatto di per sé una nuova salute, ma, almeno all’inizio, sprofonda l’assassino di tutti gli assassini nel disorientamento più vertiginoso, nell’annichilimento senza soluzione, nella disperazione senza via d’uscita, nella caduta vorticosa, senza punti d’appiglio. Nietzsche va oltre osservando come la forma più atroce del durare senza scopo consista proprio nel fatto che il significato della vita sia il ritorno eterno dell’insensato:
“L’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza un finale nel nulla: l’eterno ritorno”.
L’eterno ritorno, conclude il veggente, è “la forma estrema del nichilismo: il nulla (il “non senso”)eterno!”. Tuttavia togliere al processo il proprio fine, toglierli il senso che giustifica il cammino, può permetterci di affermare almeno il processo? Togliere di mezzo il Dio della morale (e tutti i suoi valori indirizzanti) può significare difendere una forma di panteismo in cui conti eternamente solo il processo? È possibile togliere il Dio della morale e soppesare l’eretica ipotesi di un Dio al di là del bene e del male? Nietzsche risponde alludendo di nuovo all’eterno ritorno dell’uguale ma ponendo, stavolta, l’accento sull’“uguale”: superare il Dio della morale potrebbe implicare accettare una forma di panteismo che si risolva nel processo solo se “qualcosa entro questo processo venisse raggiunto in ogni momento di esso – e sempre lo stesso”: il circolo e non la linea retta è ancora una volta l’immagine guida. E infatti nelle opere precedenti il lato più abissale e invero più ostico da interpretare resta appunto questo: l’eterno ritorno dell’uguale implica l’identico ritorno di tutto ciò che dura – a tal punto che nel ritorno dell’identico la durata è come se svanisse. Andando ancora oltre il filosofo affronta anche l’altro punto della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale, ossia l’idea secondo la quale il ritorno dell’identico abbia un risvolto etico giacché, spingendoci ad amare l’attimo non come se fosse l’ultimo ma come se fosse eterno (da sempre identico a sé), ci apre a una vita – dionisiaca e apollinea a un tempo – in cui in ogni istante eternamente creiamo noi stessi, il nostro mondo. Infatti, qualora l’uomo sentisse intimamente come proprio ogni evento che lo coinvolge, egli approverebbe “trionfalmente ogni attimo della esistenza in generale” giudicandolo buono e pregevole – lo amerebbe a tal punto, lo farebbe a tal punto suo, da volerlo così com’è per l’eternità. L’uomo che al di là del bene e del male è in grado di accogliere gioiosamente le caratteristiche fondamentali di ogni accadimento (financo apparentemente futile o “scenografico” come questo ragno e “il lume di luna tra i rami”) si pone nella disposizione dell’accettazione totale – e dunque metafisica? – della intera esistenza. Ecco che il nichilismo nella sua forma più estrema innesca una trasmutazione antropologica e un oltrepassamento dell’umano proporzionato alla azione ultraumana ed epocale compiuta dall’uomo: l’uccisione di Dio. D’altronde, se così non fosse, se questo bizzarro, demonico deicida non fosse degno della sua azione sovra-umana, il suo destino sarebbe segnato – e, ancora in virtù del ritorno, segnato eternamente. Come vivere infatti una volta che si esperisce l’eterno precipizio del nulla se non ci si trasfigura in sopportatori(cammelli), martellatori (leoni) e, infine, in creatori – divini, eraclitei fanciulli? È evidente il riferimento a Zarathustra e alla sua esoterica dottrina.
Come Nietzsche spiegherà nella Genealogia, la stessa morale ha permesso agli oppressi di conferire un senso alla loro oppressione nel dipingere gli oppressori come malvagi e nel fare della morale stessa il mezzo attraverso il quale gli schiavi sarebbero stati protetti e infine redenti. In generale la morale da un lato serve ai potenti per governare le masse, ma dall’altro insegna agli stessi dominati a “odiare e a disprezzare” la volontà di potenza dei dominatori inculcando negli uomini una perniciosa forma di vittimismo e di distruttivo risentimento che a sua volta sta alla origine dei valori schiavili. Ma che cosa accadrebbe laddove si perdesse la fede nell’avere il diritto di criticare la volontà di potenza altrui? L’uomo cadrebbe nuovamente nella disperazione anche perché, strappando il velo delle rassicurazioni che abbellisce ed edulcora la vita, intuirebbe che la stessa “volontà di morale” (ancora un volere piuttosto che un non volere) non è che un’altra faccia – la più subdola e arrischiante – della stessa volontà di potenza essendo l’odio e il disprezzo che la morale in fondo promuove appunto nient’altro che questo: volontà di volontà, sopraffazione, mascherata sete di dominio:
“L’oppresso si renderebbe conto di stare sullo stesso piano dell’oppressore, e di non avere alcun privilegio né rango superiore rispetto all’altro”.
Tutta la retorica della giustizia e dei diritti universali conflagrerebbe e – hobbesianamente – l’uomo scoverebbe in sé una brama lupesca, riscoprirebbe – invero forse non solo nel suo aspetto oscuro – il suo essere bestia, belva tra le belve. D’altra parte, Nietzsche – restando in questo senso vicino a Schopenhauer – spesso afferma che la vita è volontà che vuole se stessa. La morale dunque, insegnando l’umiltà e la rassegnazione (nonché l’odio degli impotenti rispetto ai potenti) e dando a ogni uomo un valore infinito e metafisico, lo avrebbe protetto dal nichilismo – anche se nella Genealogia financo questa stessa fede negli ideali ascetici sarà una forma di nichilismo, una fuga nel nulla dell’ideale, un’illusione, una trasfigurazione immaginifica. In ogni caso, “una volta che perisse la fede in questa morale, i disgraziati perderebbero la loro consolazione – e perirebbero”. In verità – come si accennava – la stessa morale cela in sé i segni della volontà di potenza. Difatti, nella misura in cui la volontà di potenza non si estrinsechi verso l’esterno, dirige la sua energia distruttiva verso l’interno: il risentito che non riesce a imporre la propria volontà, fa a brani se stesso – così ci si incivilisce, così ci si avvelena. Nondimeno nei frammenti viene messo l’accento sui sintomi nichilistici implicati dal superamento nella cieca fede morale come se, appunto, con la svalorizzazione dei valori, le onde del nulla che per secoli si era cercato di contenere trasbordassero oltre la diga delle rassicurazioni. Ecco i sintomi legati all’emersione di questo particolare tipo di nichilismo:
“la volontà distruzione è anche volontà di autodistruzione. I sintomi della autodistruzione sono palesi: la vivisezione operata su se stessi, l’avvelenamento, l’ebbrezza, il romanticismo, soprattutto l’istintiva costrizione a compiere azioni con cui ci si inimica mortalmente i potenti (allevandosi per così dire i propri carnefici), la volontà di distruzione come volontà di un istinto ancora più profondo dell’istinto dell’autodistruzione, come volontà del nulla”.
Il nichilismo in questo caso si presenta quale sintomo del fatto che la morale non fa più da argine, come segno del fatto che i dis-graziati non hanno più consolazione. Ora, emancipati dalle rassicurazioni ultramondane, i sofferenti “distruggono per essere distrutti”; si tratta ancora una volta della volontà di potenza che insegue se stessa nell’opera di autoannientamento. Non avendo più alcun motivo per rassegnarsi, i gregari “passano sul piano del principio opposto e a loro volta vogliono la potenza costringendo i potenti a essere i loro carnefici” e a essere, dunque, da questi massacrati. Il movimento che accompagna i vinti a scoprire il tragico e inaccettabile non-senso della esistenza è però una crisi che ha il proprio valore nel “purificare, nel concentrare gli elementi affini facendo in modo che si rovinino a vicenda”. Dalla vorticosa lotta che si ingenera quando il gregge capisce di non poter più sperare e adotta la disperazione quale proprio combattivo e paradossale ethos, affiora una spinta alla “formazione, dal punto di vista della salute, di una gerarchia di forze” che alla fine conduce a riconoscere chi comanda come chi comanda e chi obbedisce come chi obbedisce – “naturalmente al di fuori di ogni ordinamento sociale esistente” poiché si tratta di tendenze che precedono nella loro “elementarità” la volontà di comunità, la politica come socialità – da qui anche il riferimento alla impoliticità dei disperati che, non riuscendo ad amare l’ineluttabilità del ritorno eterno, combattono convulsivamente per la distruzione di sé e del mondo.
Ecco che Nietzsche si pone la domanda cruciale, alla quale dà una risposta per certi versi inaspettata: quali uomini si rivelano i più forti? Si rivelano i più forti gli uomini “moderati”, vale a dire quelli che non abbisognano più di “articoli di fede estremi” e per questo – perché non credono negli assoluti – accettano e amano la casualità, assurdità, insensatezza della vita. I forti riducono l’uomo alla sua umanità (e gli ideali a meccanismi troppo umani) e parimenti, con ciò, non diventano essi stessi ridotti e deboli né ripongono la loro fede in altri ideali ugualmente ascetici quali sono quelli incarnati nelle dottrine politiche, nelle morali universalistiche, nel positivismo, nella scienza. Sono uomini fieri che, traboccando di salute, non temono le disgrazie; sono uomini certi della loro infinita potenza, nei quali, potremmo dire, la volontà di potenza perviene a uno stato di totale autoconsapevolezza. La domanda finale risulta a questo punto retorica e rimanda con tutta evidenza ancora all’Übermensch e alla radicale accettazione della vita:
cosa penserebbe un tale uomo dell’eterno ritorno dell’uguale?