Il mondo dell’artista greco, scomparso due anni fa, irrompe nelle sale di Ca’ Corner. Dove la prima retrospettiva dopo la morte ricostruisce il gran teatro della realtà allestito da un maestro di etica e bellezza
di Gregorio Botta
Nostalgia della magia di K.: difficile che, affacciandosi a Ca’ Corner, il visitatore non senta il vuoto lasciato dal gran greco scomparso due anni fa. Soprattutto se approda alla Fondazione Prada di Venezia dopo aver visitato la Biennale: ai Giardini ha sperimentato l’irrilevanza di tanta arte contemporanea, qui si trova faccia a faccia con la potenza epica e tragica, la ricchezza di senso, il respiro della storia che soffia nell’opera di Jannis Kounellis, il gigante che ha calcato da protagonista la scena italiana e internazionale. Curata da Germano Celant – con l’amorevole aiuto della compagna di Jannis, Michelle Coudray, del figlio Damiano e dell’assistente di sempre che ha montato e smontato tutte le sue installazioni, Damiano Urbani – questa ( aperta fino al 24 novembre) è la prima antologica organizzata dopo la morte. Impresa ardua. Rispettare lo spirito estremo di Kounellis allestendo una retrospettiva è una missione quasi impossibile: perché non era certo un artista che appendeva opere già fatte alle pareti. Ogni mostra era la trasformazione e la conquista di uno spazio, che diventava scena, anzi «cavità teatrale » – per usare le sue parole – e dunque parte integrante dell’opera. Chissà cosa avrebbe fatto Jannis della magnificente architettura di Ca’ Corner: quali lavori avrebbe creato, quali riadattato, quali mescolato per introdurci in un luogo totalmente reinventato. Ma certo Celant non poteva fare una mostra à la Kounellis, mettendosi abusivamente nei panni dell’artista. La scelta è stata filologica: tutto viene esposto come era stato esposto (e il grande accuratissimo catalogo lo testimonia). Decisione inevitabile, che offre al visitatore l’occasione di ripercorrere molte tappe di una lunga corsa nei campi dell’arte. E di vedere lavori pittorici iniziali rari come quelli che trasformavano lettere in segni, quelli che spiazzavano il senso comune (come il quadro con la scritta Giallo, dove di giallo non c’è nulla). Si sa che la carriera di K. è iniziata con una forma di pittura. Ma è sorprendente scoprire che il primo lavoro in mostra, datato 1959, contenga in nuce già tutto il futuro: sono 21 bottiglie poggiate su una tavola di compensato. Sporche, impolverate, coperte di vernice o con le etichette ingiallite. Non è un ready-made, ma il suo contrario: è un’irruzione di realtà nel territorio estetico, che Kounellis ha sempre considerato, disperatamente, un territorio etico, un campo di battaglie morali. Il ferro, il carbone, i sacchi di iuta, i cappotti, i cappelli, le scarpe, gli armadi e i tavoli, i legni spezzati e le vele di barca, i giornali pressati, i gessi, i piombi: tutti gli oggetti che costellano la sua arte entrano in scena carichi della loro storia, della memoria degli uomini che li hanno usati, dell’energia che contengono, della loro gravità (parola assai cara a Kounellis). Sono il contrario di nature morte: sono, alla lettera, nature vive. Come i cavalli esposti all’Attico e poi alla Biennale. Come il fuoco che esce dai fiori di ferro o dagli strumenti musicali. (A Venezia può capitare di vedere le opere accese: per 10 minuti ogni due ore viene interrotto l’eccesso di protezionismo che ha spento, nei musei, tanta arte sperimentale).
Non c’è finzione, inganno, trompe l’oeil: tutto è verissimo nel teatro di Kounellis. Anche il profumo della polvere di caffè sui bilancini appesi lungo le scale o l’odore della grappa versata in centinaia di bicchierini poggiati sul pavimento. « Se mi chiedono se sono un pittore realista io rispondo no. Io non rappresento. Io presento » . Non meravigli la parola: pittore. Con quel suo accento straniero, l’artista diceva delle sue installazioni: « È pittura, è sempre pittura » . Una forma nuova di coscienza dello spazio che nasceva però da radici antiche, dall’amato Caravaggio, per esempio. Così era pittura – per lui – la distesa di cappotti, scarpe e cappelli di feltro che invade la grande sala al primo piano di Ca’ Corner: appaiono come un mare, come le spoglie di un’umanità dolente che si è spiaggiata a riva colma della storia che ha attraversato. Mentre i grandi armadi sospesi al soffitto del secondo piano incombono come un destino collettivo e infondono un senso di vertigine alle vite che viviamo. Erano oggetti così familiari nelle vecchie case che abitavamo e ora si trasformano in un memento carico di mistero. Ecco, l’arte eversiva di Kounellis ha un cuore antico: e forse è eversiva proprio perché ha radici profonde nella storia, perché « la tradizione è visionaria » , come ricorda Celant nel suo saggio. Accende lampade a petrolio e candele di La Tour per inneggiare alla Rivoluzione francese e indicarci una speranza nella tragedia del presente. Fa soffiare nelle vele il vento di Odisseo. Circonda il cappello di feltro dell’artista con la corona dorata di alloro che premiava, un tempo, i poeti: opera messa, giustamente, a sigillo di una mostra, e di una vita, che ha saputo misteriosamente guardare al presente dagli abissi del mito.