“ Vite di passaggio” del francese Sylvain Prudhomme racconta un’ossessione Quella che fu di Kerouac, ma più intima
di Fabio Gambaro
C’è stato un tempo, quando ancora non esistevano i voli low cost e Bla BlaCar, in cui i giovani affrontavano il mondo muovendosi in autostop. Andavano all’avventura affidandosi alla generosità degli automobilisti, scoprendo luoghi, ma anche storie e persone, che mai avrebbero immaginato prima. Tanto gli autostoppisti quanto gli automobilisti che davano loro un passaggio erano il simbolo di un’apertura mentale capace di essere disponibile agli altri senza prevenzioni né paure: erano l’espressione di un certo spirito dei tempi e dei costumi sociali dell’epoca.
Oggi l’autostop non si fa quasi più e il romanziere francese Sylvain Prudhomme sembra esserne sinceramente dispiaciuto, tanto che nel suo ultimo romanzo, Vite di passaggio, prova a restituire la poesia e la filosofia di un’attività percepita come un condensato di libertà e avventura. Si tratta di un’opera ricca di atmosfere sfumate e di emozioni appena accennate, dove con una lingua spoglia ed essenziale, lo scrittore segue le peripezie di un irrequieto e imprevedibile autostoppista quarantenne. Questi non di rado abbandona Marie, la compagna traduttrice alle prese con I pretendenti di Lodoli (da questo punto di vista il romanzo è anche un omaggio allo scrittore romano), e il figlio Agustin, per mettersi sulla strada spinto da un’insopprimibile bisogno di viaggiare, non tanto per arrivare in un luogo preciso, ma semplicemente per muoversi e mettersi in gioco. La sua è una deriva dell’erranza, senza una meta e uno scopo definiti, un movimento spontaneo necessario alla sua sopravvivenza. Non a caso, a chi gli chiede perché, ormai adulto e padre di famiglia, provi ancora il bisogno di viaggiare in quel modo, risponde con una sincerità disarmante: « Sinceramente non lo so. Lo faccio per un sacco di cose, indubbiamente. Lo faccio per gli incontri. Per i momenti che passo con me stesso. Per i posti che mi fa scoprire». Dove però la ragione più profonda è di carattere esistenziale: «Ho bisogno di partire. Serve al mio equilibrio. Se sto troppo tempo senza partire, soffoco».
I vagabondaggi dell’autostoppista ( di cui Prudhomme non svela mai il nome, a differenza degli altri personaggi del romanzo) vengono raccontati da Sacha, uno scrittore quarantenne che ha abbandonato Parigi per stabilirsi nel sud della Francia alla ricerca di una nuova vita. È qui che per caso ritrova l’autostoppista, un vecchio amico con cui in gioventù aveva molto viaggiato in autostop. I loro rapporti si erano però bruscamente interrotti e da allora non si erano più rivisti. È quindi con un misto di apprensione e curiosità che Sacha guarda l’amico partire e ritornare, ripartire di nuovo, allontananrsi sempre più da Marie e Agustin, per periodi sempre più lunghi, in viaggio verso destinazioni apparentemente dettate solo dal caso e dalla voglia di scoprire luoghi nuovi. A testimonianza di quei peripli imprevisibili, e in fondo inspiegabili, l’autostoppista spedisce a Sacha una serie di polaroid nelle quali sono immortalati gli automobilisti che gli hanno dato un passaggio, quasi a voler testimoniare la comunità degli esseri generosi che ancora abitano la terra.
Paradossalmente però, più l’autostoppista sembra perdersi sulla strada, allontanandosi dalla famiglia e scomparendo dall’orizzonte visivo di chi lo conosce, più Sacha ne prende il posto nella vita famigliare, sostituendolo affianco a Marie e Agustin, ritrovando così un centro e un equilibrio. Come se l’autostoppista stesse in qualche modo orchestrando le modalità di sopravvivenza degli altri in sua assenza, in modo da poter continuare senza sensi di colpa i suoi personali vagabondaggi sulle strade del mondo.
Attraverso l’erranza dell’autostoppista, ma anche attraverso le storie di coloro che incontra sul suo cammino e le vedute della Francia scoperte di volta in volta, Prudhomme riesuma la cultura on the road degli anni sessanta, ma senza la dimensione epica né la forza contestatrice di Kerouac e della beat generation. Per lui, vagare per le strade in balia degli eventi è certo una forma di vitalità, ma con una dimensione più interiore e poeticamente zen: «Ci sono due opzioni di fronte al destino: sfinirsi a forza di combatterlo. O cedergli. Accettarlo con gioia, con serietà, come ci si tuffa da una scogliera » . Vivere sulla strada allora non significa altro che «un certo modo di lasciarsi andare, di mollare la presa » . Vite di passaggio, quindi, non è solo un libro sul viaggio, sull’amicizia e sull’assenza, ma anche una riflessione sull’esistenza e l’essenza della libertà interiore.