di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Matteo Renzi, dopo il varo dell’ottimo Jobs act, sembra aver perso slancio sulle riforme. Non lo si ripeterà mai abbastanza: il prossimo passo per far ripartire una crescita che non sia di pochi decimali di punto, richiede sgravi fiscali consistenti, in particolare sul lavoro. Il peso del nostro debito pubblico impone che questi tagli alle tasse possano realizzarsi soltanto se accompagnati da corrispondenti e congrue riduzioni della spesa.
Su questo tema il presidente del Consiglio sta inciampando in una delle trappole cui purtroppo è spesso soggetto: l’uso di parole che indulgono al populismo, condite con un ottimismo perenne, ma combinate con pochi fatti concreti. Abbiamo ascoltato frasi come «taglierò la spesa senza ridurre i servizi offerti dallo Stato ai cittadini». Parliamoci chiaro: è impossibile. Per non dire del presunto «tesoretto» che, ancora una volta, significherebbe spesa in deficit.
Ridurre la corruzione e i costi della politica è assolutamente necessario. Ma è inutile illudersi, è solo il primo passo. Certamente essenziale, purtroppo però non basta. I servizi e l’assistenza ai poveri e anche al ceto medio vanno garantiti e, in alcuni casi, ove possibile, migliorati. Ma non possiamo continuare ad offrire servizi gratuiti a chi sarebbe in grado di pagarli.
Continuiamo ad offrire istruzione universitaria pressoché gratuita anche per nuclei familiari dal reddito molto elevato.
Ogni studente costa allo Stato circa 7 mila euro l’anno, a fronte di rette universitarie che, anche nella fascia di reddito più elevata, si aggirano, nella media nazionale, intorno ai 2 mila euro. Nelle facoltà scientifiche dell’università di Pavia, le più costose d’Italia, le famiglie con reddito più elevato pagano circa 3.500 euro, la metà del costo.
La sanità è chiaramente un diritto di tutti. Ma siamo sicuri che chi dispone di guadagni consistenti debba usufruirne allo stesso costo di chi invece ha redditi bassi? È chiaro che un approccio di questo tipo — i servizi, in casi specifici, devono essere pagati almeno quanto costano — richiederebbe un ripensamento delle aliquote fiscali. Ma questo produrrebbe solo vantaggi, in quanto innescherebbe un percorso virtuoso: i cittadini avrebbero un forte incentivo ad esigere servizi di qualità.
Non possiamo, inoltre, continuare a sussidiare imprenditori improduttivi. Non possiamo nemmeno più permetterci di continuare a usare l’impiego pubblico (permanente e intoccabile) per assorbire lavoratori in regioni in cui l’occupazione privata stenta a decollare. E che talvolta non decolla proprio a causa della concorrenza di impieghi pubblici a vita, pagati molto più della loro produttività.
Quanto ci costa coltivare l’illusione che lo Stato azionista, in questo o quel settore, possa dimostrare «la lungimiranza della politica nell’individuare le imprese di successo» ingenerando per di più l’aspettativa che ci sarà sempre lo Stato a risolvere fallimenti privati? L’ottimismo sull’economia di Matteo Renzi è certamente utile per contrastare un diffuso disfattismo, e si basa su alcuni fatti concreti: la svalutazione dell’euro, la caduta del prezzo del petrolio, gli stimoli economici della Banca centrale europea, tassi di interesse che non sono mai stati tanto bassi. Ma un conto è l’ottimismo, un conto sono leggerezza, faciloneria e populismo.
Un leader politico deve saper trasmettere l’idea di un futuro che sarà migliore, ma deve saper dire la verità ai cittadini anche quando le notizie non sono buone. Promettere che le tasse verranno ridotte, ma che i servizi si continueranno a non pagare, neppure se si è ricchi, è solo demagogia. Matteo Renzi deve fare un salto di qualità nel modo in cui si rivolge ai cittadini che meritano di essere trattati come cittadini appunto e non come perenni elettori da dover convincere.