Lo sfregio di quel corpo gettato in pasto agli squali.

di Paolo Di Stefano

Non c’è fine allo strazio. Quello quotidiano lo conosciamo al punto da esserne assuefatti. È la morte dei migranti partiti su barconi fatiscenti con la speranza di approdare in Italia, Pozzallo, Palermo, Trapani, Lampedusa, Reggio Calabria, migliaia di profughi scampati, la contabilità dei cadaveri affioranti e chissà quanti altri affondati nel fondo del Mediterraneo, che ormai è un cimitero subacqueo di uomini, donne, bambini di cui non sapremo mai il nome. Cinquecento nei primi cento giorni dell’anno sarebbero cinque al giorno se non ci fossero gli altri di cui non si sa niente. I sommersi e i salvati. Numeri che si ripetono, immagini che scorrono, la Guardia Costiera che si mobilita, le banchine che si affollano, le tende della Croce Rossa che si aprono, le sedi della Caritas che offrono ospitalità, i politici che parlano di emergenza come se l’emergenza potesse essere normalità per anni, gli appelli all’Europa e l’Europa che non risponde. Tutto già visto e sentito. Vita cercata, morte trovata, i sommersi e i salvati. La giovane donna incinta che muore con il bambino nel ventre; quella che riesce a partorire in extremis. Dare alla luce del mondo, cioè al buio della notte. Luce e oscurità che cercano di scavalcarsi come in un dipinto di Caravaggio. Ha scritto Haruki Murakami: «Stando al buio, il buio diventa la condizione normale, è la luce che finisce per sembrarci innaturale». Poi scopri le sfumature di nero. Nero su nero. Il racconto più macabro: quello dell’ennesimo corpo che uno scafista ha gettato nel mare e che questa volta non viene inghiottito dall’acqua ma lacerato dagli squali in divorante attesa. È la metafora incarnata: ora sappiamo che ci sono due tipi di squali che si nutrono delle speranze naufragate di uomini e donne con i loro bambini. Avevamo sottovalutato i pescecani in senso proprio, che hanno deciso di allearsi con i loro simili umani. O forse ne hanno abbastanza di sentirsi usurpati della loro voracità.