L’orrore delle immagini che arrivano da Bucha può anestetizzare i nostri sensi invece di indignarci.
Il rischio dell’assuefazione nasce proprio dalla facilità con cui quelle foto arrivano a casa nostra. Lo scrisse già a suo tempo Paul Valéry: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini che si manifestano a un piccolo gesto e poi subito ci lasciano». Guardare è diventata un’abitudine come altre; guardiamo seduti a tavola, nel letto sotto le coperte, protetti dalla nostra inviolata domesticità, al sicuro da bombe e mitragliatici. E la morte perde la sua eccezionalità, la sua mostruosità, per diventare spettacolo da usare, consumare e poi rimuovere. Più le immagini tendono a proporsi in modo invasivo, totalizzante, a sedurre con l’immediatezza delle loro rappresentazioni, più noi reagiamo proteggendoci da un orrore tanto funesto quanto molesto. Ma è una protezione fasulla, come quella offerta dal fatalismo di chi si limita a scuotere la testa mormorando «è la guerra!», come se si trattasse di un’alluvione, di un terremoto, di qualcosa che non appartenga all’uomo, non dipenda dall’uomo, non sia decisa dall’uomo. O come quella di chi, di fronte agli scempi di quei corpi dilaniati e profanati, cede alla tentazione di un estetismo che porta a confinare le loro immagini in una sorta di catalogo da collezionista dell’orrore da consultare senza passione, senza indulgere a nessun tipo di emozione.
E invece quelle immagini devono commuoverci, emozionarci. Emozione e conoscenza sono indissolubilmente legate. Se non ti emozioni non hai lo stimolo a conoscere. E senza conoscenza l’orrore diventa un’abitudine. Per conoscerle occorre che smettano di essere icone dell’orrore e ci parlino, ci parlino raccontando tutto quello che possono sui morti che ritraggono, sui fotografi che le hanno scattate, sulle loro intenzioni, su quali delle due parti contrapposte rappresentino.
E’ vero quelle immagini ci sono sempre state. Nelle prime guerre importanti di cui esistono resoconti fotografici, quelle ottocentesche di Crimea e la Guerra civile americana, e in tutte quelle che precedettero la Prima guerra mondiale, il combattimento vero e proprio era tecnicamente al di là della portata della macchina fotografica. La svolta ci fu con il perfezionamento dell’attrezzatura professionale, l’avvento di macchine fotografiche leggere, come la Leica, con pellicole da 35 mm. che potevano essere esposte 36 volte prima di dover ricaricare l’apparecchio. La Guerra civile spagnola (1936-39) fu così la prima a essere documentata integralmente da uno stuolo di fotografi professionisti, inviati in prima linea e nelle città bombardate, così come la guerra del Vietnam fu la prima seguita giorno dopo giorno dalle telecamere; da allora, le battaglie e i massacri filmati «in diretta» sono divenuti un ingrediente abituale della quotidianità televisiva. In Vietnam morirono 135 fotografi; questa cifra sottolinea l’ansia di documentare la verità, inseguendola fino alla linea di fuoco dei combattimenti, che segnò allora il rapporto tra la fotografia e la guerra; ne vennero fuori immagini destinate a suscitare forti emozioni e grandi passioni politiche, da quella del 1° febbraio 1968, scattata da Eddi Adams, con il colonnello Nguyen Ngoac Loan, capo della polizia sudvietnamita, colto nell’attimo in cui spara a bruciapelo a un prigioniero vietcong, a quella con la bambina nuda, ferita, in fuga dal villaggio bruciato dal napalm, scattata nel 1972 da Huynh Cong Ut.
Poi, transitando oltre il Novecento, dopo la fine della Guerra Fredda guardare la guerra diventò un’altra cosa. E si fece concreto il rischio, denunciato per prima da Susan Sontag, che il profluvio di immagini che arrivava dai mille teatri di guerra potesse produrre solo assuefazione e rimozione. «Troppa luce abbaglia», diceva Pascal: la reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l’annulla. Per quanto tragiche possano essere, ci sono immagini che provocano come una reazione di rigetto, quasi che la vittima fosse colpevole del suo «eccesso» di sofferenza. L’«uomo dei consumi», plasmato dal mercato, che abita il mondo post-novecentesco, divora voracemente anche la morte messa in scena; l’unica alternativa a questo pigro ottundimento sembra dischiudere orizzonti ancora più perversi: le fotografie delle atrocità belliche possono solo suscitare proclami di vendetta e odio per il nemico.
Per non soccombere a questi rischi bisogna guardare a quelle immagini come documenti, come una fonte di conoscenza. Quelle di Bucha raffigurano morti fatti dai russi durante i giorni dell’occupazione? O sono di morti ammazzati dagli ucraini nei giorni immediatamente successivi alla ritirata dei russi? Siamo presi in mezzo, frastornati dalle opposte dichiarazioni e, come molti hanno scritto, sappiamo solo che in guerra la verità è sempre la prima vittima. Ma sappiamo anche – e questa è una certezza – che quei morti sono dei civili e questo – chiunque abbia compiuto il massacro – ci racconta la terribile realtà di una guerra che, fin dal suo inizio, ha scelto i civili come bersagli privilegiati. Civili sono morti a Mariupol, Kharkov, Chernihiv, Izium e nelle altre città ucraine martoriate e occupate dagli invasori russi; civili sono stati rastrellati e infamati come collaborazionisti; civili son stati indirizzati in falsi corridoi umanitari per essere deportati; civili sono stati usati come ostaggi per proteggere le truppe combattenti. Questa è l’orribile modernità della guerra in Ucraina. Nessuna guerra simmetrica tra eserciti regolari che rispetti le antiche regole del diritto bellico, ma una mostruosa carneficina, una dimensione disumana in cui si entra solo per uccidere e per farsi uccidere. Nessuna assuefazione è possibile. Se non riusciamo a percepire lo scandalo di quelle immagini è perché qualcosa è morto anche dentro di noi e la guerra è pronta a cibarsi delle nostre anime morte.