Sale la tensione tra India e Cina, le due nazioni più popolose al mondo per un totale complessivo di 3,5 milioni di militari. Quest’ultima in particolare sta per affacciarsi da protagonista all’Occidente come mai prima nella storia, forte di investimenti mastodontici in trasporti, infrastrutture (OBOR), reti 5G, intelligenza artificiale. Nel mentre l’Italia è sempre più un’entità immobile in stile Gattopardo. Il quadro che rappresenta la penisola è quello di una statica natura morta, spettatrice di tutto ma che nessuno può e vuole ascoltare. Tra mance pseudo assistenzialiste, MES sì, MES no, MES Forse e con un ruolo in Europa né chiaro né programmato, gli Italiani sbavano su show televisivi di cucina, invecchiano fotografando maccheroni e pontificano tracotanti su internet, dall’alto di uno smart working sottopagato ma tollerato per poter competere nella sfida social a chi ostenta il weekend più invidiabile.
La spettacolarizzazione del cibo e il bisogno di condire una comfort zone con uno stile di vita Bio patinato e “Slow” rivelano l’inadeguatezza del paese e complessi d’inferiorità irrisolti verso la contemporaneità. Non bisogna però illudersi che l’Italia del Coronavirus sia tornata ad essere l’Italia della peste narrata dal Manzoni, sarebbe un parallelismo troppo semplice e comodo. Ci si può limitare a vedere la condizione italiana come un regresso all’estetica di un bel quadro di natura morta un po’ impolverato.
È il 1598 quando Michelangelo Merisi, meglio conosciuto come Caravaggio, completa la sua celebre “Canestra di frutta”. Il dipinto, oggi conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, è una discreta tela lunga appena 47cm ma al suo interno contiene una serie di messaggi premonitori per l’Italia e per l’Europa. Bisogna però procedere per gradi: la composizione eseguita ad olio dal Caravaggio in 4 anni di lavoro preannuncia la stagione del barocco, e in un certo senso il pittore lombardo ne è già un esponente di assoluto rilievo, ma è prerogativa dei maestri sfuggire alle facili etichette stilistiche. Caravaggio, così come un Giotto o un Beethoven è difficilmente inquadrabile in un’unica cornice di linguaggio. Il soggetto ripreso ha innegabili reminiscenze classiche che riconducono all’arte ellenistica e alla frutta dei mosaici di Pompei, a quella caducità della materia lasciata marcire immobile in sacrificio agli dei.
Tuttavia la canestra è una natura morta a pieno titolo figlia del suo tempo, contemporaneamente addio (che non è un vero addio) al classicismo e principio della controriforma e del moderno barocco nel quale l’Italia perderà man mano il protagonismo assoluto delle stagioni medievali e rinascimentali. La fiscella del Caravaggio precede di appena 2 anni l’avvento del seicento, secolo nel quale la centralità italiana viene messa in ombra da Olanda, Inghilterra e Francia. Il baricentro socio-economico d’Europa lascia il Mediterraneo per trasferirsi a settentrione tra il mare del nord e gli oceani. Non sono più i tempi fecondi dell’Italia comunale-rinascimentale.
Le signorie e i regni d’Italia, papato incluso, iniziano ad arrancare. Stretti dall’espansionismo degli imperi e da nuova concorrenza tecnica e mercantile gli Italiani sono sempre meno padroni del proprio destino, e la finanza, i commerci, la forza militare, i primati tecnologici nell’ingegneria nautica, idraulica, tessile ecc. non gravitano più attorno a Firenze, Siena, Milano o Venezia ma conoscono nuovi epicentri in Anversa, Rotterdam, Londra e Parigi. Tutto ciò ha per forza di cose conseguenze anche sulla produzione artistica. I geni creativi né cascano dal cielo né nascono per caso in determinati territori. Cimabue, Giotto, le banche fiorentine, Raffaello, “Il Cortegiano” del Castiglione, i galeoni veneziani, le armi di Pistoia ecc. Tutto è collegato e strettamente connesso, nella fortuna così come nella miseria.
In un quadro di tale ampiezza il sacco di Roma dei Lanzichenecchi nel 1527 è senz’altro un evento emblematico che sancisce un duro colpo per l’Italia moderna e segna un punto di rottura culturale oltre che politica destinato a durare 3 secoli, se non di più.
Già il Vasari a metà ‘500 nelle sue “Vite” preannuncia un’irrimediabile decadenza delle arti venture che seguiranno la “terna stellare” composta da Leonardo, Raffaello e Michelangelo, specialmente quest’ultimo. Secondo il Vasari le forme celesti di Michelangelo sanciscono l’apice della produzione artistica umana, una vetta dalla quale non si può che scendere. Dal canto suo Giovanni Pietro Bellori, equivalente seicentesco del Vasari per quanto riguarda la letteratura critica dell’arte, non risparmia critiche allo stile del moderno Caravaggio. Pur comprendendone il valore il Bellori non è interessato al realismo materico di foglie avvizzite, ferite livide e rughe di popolane. Nemmeno le ali degli angeli caravaggeschi possono per lui competere col misticismo del disegno di Raffaello.
Lo storico romano esalta la pittura metafisica e trasfigurante del bolognese Guido Reni e i suoi interessi verso l’antiquariato e le antichità non possono che fargli apprezzare immensamente i lavori dell’amico Nicolas Poussin. Il francese è figlio del clima barocco europeo, ma anche testimone di rappresentazioni classiche bilanciate ed eleganti, forse la prova delle tesi di Erwin Panofsky, secondo cui il barocco in realtà non è affatto agli antipodi rispetto al classico, tutt’altro: l’iconografia barocca è vista come un ritorno alla chiarezza del rinascimento in risposta agli esperimenti estrosi del manierismo (si veda la Madonna dal collo lungo del Parmigianino).
Il passato classico è una pesante eredità e il suo perdurante – e a tratti forse anche morboso – culto fa sì che Caravaggio venga accantonato da critica e grande pubblico fino agli inizi del novecento, quando finalmente viene riletto e riscoperto da Roberto Longhi. È a partire dalla fine del cinquecento che l’Italia non si cala più per davvero e coerentemente nella contemporaneità. Eppure un importante ciclo culturale termina con Giambattista Tiepolo, protagonista del settecento veneziano e nome ricercato da tutte le grandi corte europee specialmente per i suoi affreschi con mirabili giochi prospettici in stile Barocchetto. Tuttavia il Rococò e il Barocchetto italiano non hanno per così dire “le spalle coperte” dal fermento sociale ed economico dei secoli precedenti. La Roma dei papi termina con Bernini una stagione gloriosa per poi diventare sempre più culturalmente provinciale rispetto a centri come Venezia, Genova, Napoli e Torino. Emblematica è la decisione di Luigi XIV nel 1623 di affidare il progetto di Versailles ad architetti francesi e non all’italiano Gian Lorenzo Bernini.
La Francia inizia un percorso di emancipazione culturale rispetto all’Italia con una scelta architettonica “autarchica”. Si dovrà attendere Napoleone e gli incarichi di prestigio affidati al Canova per respirare nuovamente una presenza italiana di rilievo nel panorama europeo neoclassico. Dal canto suo il Re Sole lascia per la prima volta i maestri italiani giù dal palcoscenico. Un sessantaseienne Bernini, al culmine della carriera, è chiamato a Versailles solo per produrre un busto in marmo per Luigi XIV. Il Cardinale Richelieu lo ricompensa con un gioiello con ben trentatré diamanti incastonati. Il sovrano rimane talmente soddisfatto dall’opera da commissionargli una più ambiziosa statua equestre. Purtroppo il temperamento poco diplomatico di Bernini compromette il rapporto con la corte francese, in particolare alcune uscite ingiuriose circa l’arredamento del palazzo vengono riportate al Re Sole. Questi liquida il Bernini e lo lascia tornare in Italia senza accordargli il progetto d’ampiamento del Louvre tanto discusso. La statua equestre viene realizzata su modello del suo Costantino al Vaticano ma arriva in Francia solo vent’anni dopo, quando Gian Lorenzo è già morto. Il re la giudica così orribile da volerla distruggere, ma riesce a salvarsi poiché trasformata in un Marco Curzio e relegata in un angolo poco battuto dei giardini di Versailles.
La modernità non è però raccontata solo dai marmi vorticosi del Bernini. Occorre focalizzarsi sulla pittura di genere per ritrovare certe tipi umani, come li chiamerebbe Balzac, icone ante litteram del consumismo autodistruttivo e del più grottesco materialismo tragicomico. La stagione è compresa tra il XVI e il XVII secolo, quando gli Olandesi e i Fiamminghi decidono che il bizzarro e l’ultra profano possono essere rappresentati tanto quanto madonne e santi. In questi anni, specialmente in capitali come Parigi, nascono accademie-fabbriche di dipinti di genere. Come in catene di montaggio decine di pittori confezionano ogni giorno centinaia di tele con soggetti profani pronte alla vendita al dettaglio.
Non bisogna pensare che tutte le opere oggi conservate tra gallerie e musei avessero in origine quella destinazione. Molte opere vengono pagate dai committenti “a teste” (per numero dei soggetti), dopotutto la funzione dei quadri è spesso di tappare letteralmente i buchi e gli infinti spazi nelle pareti di palazzi, saloni e regge. La pittura non è più sola celebrazione politica e religiosa. Il graduale imborghesimento della società vuole stupire e intrattenere ospiti con scene più frivole e della grottesca quotidianità, ed ecco quindi le boccacce e le risse tra beoni in osteria di Adriaen Brouwer, i mercati di Pieter Aertsen ricolmi di cibi pantagruelici e di “roba” di Verghiana memoria.
L’Italia dal canto suo ha già visto verso la fine del cinquecento i poderosi seni dipinti dal cremonese Vincenzo Campi, artista che precede le scene di genere del nord Europa con i suoi pescivendoli, la fruttivendola dalle forme procaci e gli orgiasticamente promiscui mangiatori di ricotta. Eppure la risonanza di Campi non è così forte come quella portata quasi un secolo dopo dalle figure femminili di Vermeer. Caravaggio è preceduto da Campi e totalmente digerito dai nordici, ma tutto ciò che si scruta nel mondo contemporaneo è già raccontato dalle opere di entrambi: l’ossessione per il Food Porn, le smorfie da social, le pose voluttuose o l’ostentazione decadente dei beni materiali. Tutto è già raccontato nell’Europa della controriforma e del barocco. Il reggiano Cristoforo Munari confeziona delle nature morte magistrali nel sottolineare l’effimerità dell’esistenza e il precetto del “Memento Mori”. Un “Tempus Fugit” fatto di meloni aperti e angurie tagliate: questa frutta in attesa di marcire, dimenticata tra strumenti musicali, ceramiche cinesi e orpelli vari. Inconsapevolmente Munari offre immagini evocative per l’Italia del futuro. Chi infatti oggi si scandalizza in modo eccessivo per il corso degli eventi è perché non li ha captati dalle iconografie del passato, evocatrici d’uno spirito del tempo forse ciclico, forse circolare o forse solamente ironico. Dopotutto un filtro Instagram altro non è che la semplificazione nazionalpopolare di un affresco a trompe-l’œil di Andrea Pozzo.